Una storia non esiste se non viene raccontata...
di Valentina Colombo
Per 30 anni cinereporter Rai, Sebastiano Nino Fezza ha documentato con la sua videocamera 17 conflitti nel mondo. A 5 anni dalla pensione ha deciso di lasciare il lavoro della vita per dedicarsi, anima e corpo, ai più piccoli, facendo tesoro della propria esperienza. “Io sto con i bambini” è di fatto il suo motto, che va perfettamente a braccetto con quello che ogni giornalista dovrebbe adottare: “Una storia non esiste se non viene raccontata”.
Ormai sindaco “ad honorem” della città dei bambini di Fano (PU), racconta la guerra ai bimbi d’Italia per insegnare la pace. Tramite Maram Foundation e @uxilia sostiene lo sviluppo di una scuola ad Atma, campo profughi in Siria. Possiamo leggere le sue riflesioni, ogni giorno, dal suo blog, ninofezzacinereporter.
Autopresentati, chi è Sebastiano Nino Fezza?
«Sono un uomo fortunato perché ho avuto la fortuna di fare un lavoro meraviglioso. La Rai mi ha pagato per 30 anni per girare il mondo, il che non è poco. Ho avuto anche la fortuna di poter scegliere di occuparmi di certi temi, nella fattispecie quello delle guerre nelle zone più povere del mondo. Quindi ho avuto modo di toccare con mano, realmente, cosa significa essere “uno degli ultimi”, perché di questo si sta parlando.
Ho documentato 17 conflitti nel mondo. Sai, inizi perché vuoi documentare queste storie, lo fai sempre con piacere, con entusiasmo. Poi gli anni passano e ti accorgi che alla fine, un conflitto in Medio Oriente è uguale ad uno in Africa, come ad uno in Estremo Oriente. Così cominci a porti le domande, ti chiedi: “Che diavolo sta succedendo? Cos’è una guerra? Perché una guerra?”».
Allora, cos’è per te la guerra?
«La guerra è sempre la stessa solfa per certi versi. Nel senso che, spesso vengono fatte in nome delle religioni in quanto strumenti che servono a fomentare la gente, poi i veri problemi sono di natura economica o geopolitica nel terzo millennio, comunque sempre spinti dalla religione.
Ma c’è una cosa che ho capito negli anni: non c’è una guerra. Esistono le guerre. C’è quella ufficiale dei generali, delle strategie, aeree, etc. c’è una guerra economica, una per la ricostruzione, una per la vendita delle armi. Ma la guerra più importante e dolorosa, la guerra di cui nessuno parla, è la guerra della gente. La gente che la guerra non l’ha mai voluta.
Ma quando mai un siriano normale, che andava a lavorare per portare avanti la sua famiglia, voleva la guerra? Non esiste al mondo. Questo è il vero dramma.
Insomma è sempre la guerra degli ultimi. Ma anche questa parola, “gli ultimi”, è da contestualizzare. Perché gli ultimi sono gli uomini, sono le donne, sono gli anziani, i bambini. Ovviamente i soggetti più deboli sono gli anziani e i bambini. Io ho sposato la causa dei bambini. Non perché non abbia a cuore la causa degli anziani, ma io sono ormai in quella categoria. Così come gli altri “anziani” ho vissuto la mia vita, ho avuto dei figli. Un bambino no, un bambino ha ancora un mare di sogni, di speranze, di desideri. Per questo io lotto sempre per i bambini. Visto che ne ho visti morire tanti nelle guerre, li ho visti morire di fame, di colera, di bombe, di mine, allora la questione diventa ineluttabile.
Ti chiedi: “Ok, sto per finire questo lavoro, ora cosa faccio? Butto via questa esperienza? Sarebbe un peccato”. Allora sono andato via dalla Rai prima della pensione, a 59 anni, 5 anni fa, mi sono rimesso in discussione e sono partito da capo. Ho lasciato l’azienda e deciso di fare qualcosa per questi ragazzini.
Così mi sono mosso in due direzioni. Una è quella di raccontare un po’ questa guerra. Giro spesso l’Italia, anche l’Estero, raccontando la guerra per insegnare la pace. Ma cerco di raccontarla sempre “ad altezza di bambino”. Perché la visione del mondo, ad altezza di un bambino, non è quella di un uomo adulto. Tutto diventa più impressionante, più grande, più pauroso.
Dall’altra parte sto cercando di fare qualcosa di più concreto. Sono 5 anni che, insieme ad una ONG siriana americana, Maram Foundation, sto assistendo una scuola in un campo profughi ad Atma, in Siria. Da 5, ora abbiamo 500 bambini. Per finanziare questa scuola giro l’Italia facendo convegni, cercando di tirar su i soldi.
Ecco, questa è la mia vita. È fatta di due parti. C’è quella parte che è stata importantissima, ho lavorato con grandi giornalisti, da Santoro, a Vespa, Minoli… un po’ tutti quanti. Quella è stata una parte della mia vita che ha dato i frutti. I frutti sono questo tipo di esperienza che ho acquisito e che mi permette, oggi, di poter parlare di guerra per insegnare la pace.
Ad esempio, il 14 settembre sono a Bari, alla fiera del Levante, per parlare di bombe su civili. In generale vado per le scuole, incontro bambini e universitari. Insomma sono un uomo fortunato, ho avuto la fortuna di acquisire un’esperienza straordinaria ed è un peccato buttarla via».
Allora, a proposito di esperienza. Sui social scrivi: “Andate a vedere cosa succede nel sud del mondo, io l’ho fatto per 30 anni”…
«Esatto. Nel Sud del Mondo, la gente ha due atteggiamenti, uno contrapposto all’altro. Uno di disperazione, l’altro di speranza. La disperazione perché ogni giorno è uguale all’altro se non peggio dell’altro. Di speranza perché ogni giorno arrivano nuovi colonizzatori. Ora sono arrivati i cinesi, ma all’epoca della colonizzazione c’eravamo anche noi. Questa speranza è ormai disillusa. La gente non crede più al fatto che possiamo dar loro una mano. Di fatto l’hanno imparato sulla loro pelle.
Una frase che si ripete sempre è “aiutiamoli a casa loro”. Eh, certo. Qual è il problema? Vogliamo fermare l’immigrazione? Allora smettiamola di abusare delle risorse africane: petrolio, oro, gas, coltan. In Congo, ad esempio, i bambini lavorano nelle miniere.
Come può vivere un bambino che scava nel fango (sono miniere a cielo aperto). Come può vivere un bambino che lavora ai margini di una miniera d’oro controllata da una multinazionale europea e scava buchi larghi 30 centimetri, profondi una ventina di metri e si infila lì nella speranza di trovare una pagliuzza d’oro per una ricompensa insignificante.
Come può vivere una madre che è costretta, alle volte, pur di far sopravvivere gli altri figli, permettere la sperimentazione di un nuovo farmaco sui suoi figli, sempre per il benestare di multinazionali europee e non solo.
Il problema vero è che per loro la sopravvivenza è step by step, day by day. Se devi sopravvivere, non puoi pensare ad altro. Non pensare ad istruire i tuoi figli, devi prima pensare a sopravvivere. Questo è il modo per controllare un Paese.
Inoltre c’è da aggiungere che il tallone d’Achille dei Paesi africani è il tribalismo, è molto forte. Allora la cosa più semplice è che, quando il Paese sta emergendo, basta fare un piccolo colpo di Stato. Questa è la cosa più semplice. Ti porti un gruppetto di pseudo intellettuali della fazione opposta – li porti magari per sei mesi a Parigi, in Francia e li prepari – dopodiché organizzi un colpo di Stato, mandi giù i tuoi consiglieri e occupi la televisione, il parlamento e l’esercito. Così hai fatto il colpo di Stato. In sintesi sembra una sciocchezza, ma tutto ciò provoca migliaia e migliaia di morti. Le esplosioni di violenza sono terribili, io le ho viste ad esempio in Sierra Leone, è devastante. C’è una completa distruzione del Paese, dove emerge tutta quella rabbia che si traduce in violenza. Insomma cosa hai fatto? Hai portato il Paese in uno stato di bisogno assoluto. È la cosa più facile da fare. I romani lo facevano in maniera un po’ più falsata».
Riguardo lo sfruttamento dei loro territori, sul tuo blog parli di Land Grabbing
«Sì, è un fenomeno di cui non parla nessuno, dura da qualche anno. È terribile, costringe la gente ad andare via. I Paesi più ricchi, a partire dalla Cina, stanno comprando milioni di ettari africani dove vanno a costruire città, ponti etc, buttando fuori chi ci abita in origine. Pensa che ci sono dentro anche gli italiani, abbiamo comprato quasi 1 milione di ettari in Africa. Di questo non ne parla nessuno ma è terribile».
Di questi 17 conflitti che hai documentato nel mondo, ti va di raccontarmi qualche episodio che ti ha particolarmente segnato?
«Intanto faccio una distinzione ben precisa. L’aspetto più devastante non è la guerra in sé ma l’immediato dopoguerra. Sempre tornando a quella questione della guerra degli ultimi. Perché durante una guerra ci sono i militari, gruppi armati etc. Il vero problema è il dopoguerra, quando non c’è più l’attenzione dei media. Quando la gente cerca di tornare nelle proprie case o le trova distrutte, o le trova occupate da bande armate. Perché questo succede durante la guerra, non c’è nulla di romantico e cavalleresco. Durante le guerre nascono i gruppi armati: delinquenti e banditi un po’ più “intelligenti” di altri che, invece di spendere i soldi in droga, in oppio, in cocaina, mettono in piedi il loro esercito. Ma non stiamo parlando di centinaia di persone. Ne bastano 7 o 8 e puoi controllare un quartiere, un villaggio, un paese.
Ecco, in questo scenario di tutti contro tutti, in mezzo ci sono i bambini, la gente “normale”. E così torno alla tua domanda. Ci sono due episodi che hanno segnato tutta la mia vita, in Sud Sudan, circa 10 anni fa. In un caso ho incontrato Madid, in una città completamente rasa al suolo dove arrivavano profughi da molte zone. Il cibo arrivava solo quando arrivava il World Food Program. Era lanciato dagli aerei. Quando la popolazione viene a sapere di un lancio in programma, cammina per giorni e giorni per raggiungere il punto dove avverrà il lancio. Ecco, in una di queste occasioni ho incontrato una madre con due bimbi. Uno in braccio a lei e l’altro a terra. Questo bambino si chiamava Madid, abbiamo subito visto che era in condizioni disperate, sguardo allucinato, fisso nel vuoto, era affamato, stava morendo di fame.
Allora l’istinto è di raccontare quella storia e quella di aiutare un bambino, anche perché, come dico sempre, “una storia non esiste se non viene raccontata”. Quindi quello è un momento drammatico perché devi decidere cosa fare. In quel momento, l’istinto e l’esperienza mi hanno fatto fare due cose in contemporanea: ho messo la telecamera tra le ginocchia e l’ho fatta partire. Nel frattempo mi ero fatto portare una tazza di thè molto zuccherato e cercavo di imboccare Madid. Ogni volta che lo imboccavo lui vomitava quanto ingerito. La terza volta che ci ho riprovato, lui quasi infastidito ha preso lo straccetto con cui era avvolto, si è girato, si è sdraiato ed è morto di fame. Madid è morto di fame. Do sempre un nome ai bambini perché altrimenti sono numeri.
Poi c’è Ciobe. Non l’ho mai conosciuto ma so chi era. Sempre nella stessa città, dopo qualche giorno, ho incontrato una madre con 3 bambini. Aveva la necessità di salire sulla macchina e tornare indietro sulla pista. Il viaggio è durato circa 3 quarti d’ora. Siamo arrivati vicino una radura, lei è scesa al volo ed è andata di corsa verso un grosso albero, ha spostato delle frasche chiamando in continuazione il figlio. Poi è andata attorno all’albero tornando disperata. Insomma, era partita con 4 bambini: una legata dietro, uno legato davanti, uno nella mano destra e uno nella mano sinistra. Lungo il percorso, Ciobe si è sentito male. Allora la mamma cosa ha pensato di fare? Ha visto un incavo grosso in quell’albero, ci ha messo il bambino dentro, l’ha coperto con le frasche, si è ripresa gli altri 3 bambini ed è andata verso la città con l’intenzione di farsi aiutare e tornare indietro a riprendere Ciobe. Insomma, il bambino non c’era più al suo ritorno. Ciobe se l’erano portato via gli animali, l’avevano mangiato.
Mi chiedono anche perché fanno tanti figli. E meno male che li fanno. Sai, facevo una riflessione mesi fa: un figlio che perde una madre ha una parola per essere identificato, si chiama “orfano”. Solo in alcuni dialetti africani, invece, esiste il nome che identifica un genitore che ha perso un figlio. Questo termine da noi non esiste, perché per noi è contro natura. Nel sud del mondo, invece, è una cosa normalissima.
Quando arrivavano dei giornalisti giovani con me, per far loro capire il prima possibile cosa significa essere africano, li portavo in un ospedale. Arrivati lì, è consuetudine vedere una madre che arriva con un bambino in braccio e due becchini che portano un altro bambino con un lenzuolo. Lo mettono su questa pietra, la madre per 5 minuti piange disperata, poi i becchini lo prendono, lo coprono e la madre se ne va. Così la vita ricomincia.
La cosa terribile è vedere i bambini morire. Io li ho visti morire anche di colera. In Mozambico ho visto una grossa epidemia. Sai come muoiono? Ci sono questi grossi stanzoni in ospedali, vuoti con una stuoia su un vecchio letto arrugginito, con un buco al centro: sdraiati lì, ti guardano con questi grossi occhioni e qualsiasi cosa ingeriscono la sputano via. Così muoiono disidratati. E pensare che basterebbe vaccinarli, lavare le unghie, non dare la mano, non grattarsi il sedere. Basterebbe poco. Eppure migliaia muoiono così. La vita e la morte sono davvero due compagni di viaggio imprescindibili tra di loro in questi paesi. Beh, tutti questi anni di esperienza hanno cambiato anche me. Pian piano la morte non provocava in me più dolore ma tristezza. Ho imparato a farla diventare parte della mia vita».
Dici spesso “una storia non esiste se non viene raccontata”. C’è sempre una leggera linea di confine tra quanto si può immortalare e quanto no. Fino a quanto un giornalista deve spingersi?
«Il mio approccio è cambiato nel corso degli anni. Ho iniziato con molto pudore, con molto rispetto, però ho capito che le cose non funzionano così. Ora sono un po’ duro ma è frutto della mia esperienza personale. Parti dal presupposto che, chi sta vivendo una situazione, la vive con i cinque sensi. La morte, ad esempio, non è solo vederla. La morte è sentirne l’odore, che è terribile. La morte è sentire il tatto. La morte è sentire quel rantolo e poi silenzio. Sono cinque i sensi. Ma quanto te la racconto quanti sensi usi? Uno al massimo due. Quindi io sono dell’idea che le cose vanno raccontate con forza, altrimenti non si riesce a raggiungere l’obiettivo.
Sulla mia pagina Facebook sono stato attaccato duramente all’inizio, visto che mostravo bambini morti. Piano piano, tutti quelli che mi seguono – ora 77mila – hanno capito qual era il senso della questione. Si tratta solo di educare. Io non sono per edulcorare, assolutamente. Anzi, bisogna dare pugni nello stomaco.
Ormai la gente confonde la fiction dalla realtà. Allora devi dare segnali forti se vuoi essere visibile e attirare l’attenzione, perché lo scopo è quello. In Italia abbiamo una politica e un giornalismo molto provinciale. Ci occupiamo solo di politica nazionale. Ci vogliono mille morti per dire che è successo qualcosa in Siria, ad esempio. Quindi bisogna in qualche maniera dire alla gente: “Guardate che la vita è molto più dura di quella che immaginiamo noi”. La vita non è un film, la vita è fatta di dolore, di strazio.
Incontro circa 10mila bambini all’anno. Il più grande regalo che cerco di fare loro, e loro lo capiscono meglio dei grandi, è di dire quanto siamo fortunati, noi che siamo nati nel nord del mondo. Ma dobbiamo avere la consapevolezza che noi siamo l’eccezione, non la regola. La regola è il Sud del mondo. La regola è fango, malattia, epidemie. Noi siamo 1 miliardo scarsi. Gli altri 6 e rotti sono giù. Insomma, purtroppo dobbiamo forzare un po’ la mano per aiutare la mancanza degli altri sensi che abbiamo nel raccontare».
Stiamo assistendo ad un’ondata d’odio e paura da parte di questa minoranza privilegiata di esseri umani sul pianeta, verso la maggioranza che vive in miseria. Da cosa nasce e come si combatte questo fenomeno?
«Nasce da dei bisogni. Se la gente non ha dei bisogni, non ha necessità di trovare un nemico. Il secondo elemento è la non conoscenza. Quando l’uomo non conosce, combatte. Fa parte della natura umana. Ma è quell’ignoranza che, purtroppo, è stata alimentata da internet. Internet da una parte è uno strumento straordinario che ti permette di accedere a informazioni da tutto il mondo, d’altra parte influenza la mente e la condiziona.
La gente oggi in Italia si informa su Facebook. È spaventoso. Non si leggono giornali nazionali, neanche a parlare di quelli esteri. Quindi è facile alimentare ill fuoco: dove c’è ignoranza puoi inventarti quello che vuoi. Chiaramente, questo vuoto che si è creato, viene riempito da qualcuno. Oggi siamo diventati tutti xenofobi, fascisti, ma in realtà lo siamo a parole, siamo fascisti da tastiera. Al di là dei pochi facinorosi che vanno in piazza, siamo dei cagasotto. Non hai idea delle minacce che ricevo io, ma sono tutte chiacchiere…».
Però questi “fascisti da tastiera” hanno diritto di voto…
«Certo, così certi partiti continuano ad avere popolarità. Perché è facile muoversi sull’ignoranza. Salvini, ad esempio, parla alla gente come parlala gente. cosa che gli altri politici non fanno. Lui usa lo stesso linguaggio, grammatica, sintassi. Se parli ad un ignorante, come parla lui, loro ti prendono per leader. In più aggiungi questa situazione di recessione generale mondiale, quindi il gioco è fatto.
Il fatto però è che queste persone non hanno l’esperienza diretta di avere provato cosa significa avere fame. Faccio sempre l’esempio: noi confondiamo la fame con l’appetito. Ci sono persone che sono fortunate se riescono a mangiare un pasto al giorno, noi invece abbiamo solo appetito.
La gente non sa neppure cosa sia la paura. Nei miei anni di lavoro ho imparato a distinguere l’odore del sudore della paura da quello dello sport. la mia difficoltà è appunto quella di raccontare le cose. Vivo con i cinque sensi una situazione ma devo riuscire il più possibile a tradurla solo in uno per raccontarla.
Se la gente avesse avuto la fortuna di fare un’esperienza come la mia una volta nella vita, in questo momento non ci sarebbe questo rigurgito di fascismo. Insomma in tutto questo clima di ignoranza e recessione, c’è sempre qualcuno che raccoglie il testimone e lo fa suo. In tutto questo, chi è caduto nella trappola ora sono i Pentastellati. Ecco in questo clima cerco di diffondere messaggi positivi, usando ironia e leggerezza. Piano piano, qualcosa sta cambiando almeno tra i miei contatti».
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