L'esodo biblico del popolo siriano...
di Tommaso Della Longa
Beirut - “Guerra e sofferenza ci corrono dietro, quotidianamente”. Samira ha 36 anni ed è scappata dalla Siria con le sue sette sorelle e i loro dodici bambini. Oggi vive in Libano, nella valle della Bekaa, in una fabbrica di plastica abbandonata, senza acqua corrente, bagni, cucina. In poche parole, senza nulla.
Samira è una degli 845mila profughi siriani, secondo i numeri delle Nazioni Unite, che hanno attraversato il confine con il Libano. Qui però sono tutti convinti che il numero sia superiore, che possa arrivare a oltre un milione solo nel paese dei cedri, calcolando anche quelli che non si sono registrati ufficialmente. In tutto si parla di due milioni e 300mila profughi nei paesi limitrofi e più di quattro milioni di sfollati interni.
“Ogni giorno la situazione diventa peggiore. Il freddo è arrivato, durante la notte la temperatura scende alcuni gradi sotto lo zero e noi non sappiamo come proteggere i nostri figli”. Queste parole fanno eco tra tutte le signore che incontriamo durante la distribuzione alimentare della Croce Rossa Libanese a Saadnayel, un villaggio a meno di quaranta chilometri dal confine siriano. Le storie sono molto simili tra loro: l’arrivo della guerra, i bombardamenti, le case distrutte, i bambini che come reazione si chiudono in se stessi e smettono di parlare, la morte di amici e parenti. E poi la decisione sofferta di lasciare il proprio Paese, la fuga dalla guerra, i viaggi da una città all’altra in Siria, poi il passaggio del confine e l’arrivo in Libano, dove non sono stati aperti ufficialmente i campi profughi e ognuno si sistema come può. In molti hanno affittato delle stanze, altri hanno affollato i già precari campi profughi palestinesi, altri ancora vivono, come nel caso di Samira, in un riparo di fortuna.
L’arrivo dell’inverno, del freddo, della neve e del peggior inverno degli ultimi anni ha ovviamente moltiplicato i bisogni e dimezzato il tempo a disposizione per distribuire gli aiuti umanitari. Purtroppo però, dopo quasi tre anni di conflitto armato, il disastro umanitario siriano non è sotto i riflettori e l’emergenza rischia di diventare un dramma di immense proporzioni. Il sogno di tutti i siriani che abbiamo incontrato è quello di tornare a casa “il prima possibile”. Purtroppo però questa crisi umanitaria durerà ancora a lungo, forse per anni. Uno dei fattori più preoccupanti è l’educazione e l’effetto della guerra sulle giovani generazioni. Parliamo di decine di migliaia di bambini che non vanno a scuola, che hanno bisogno di sostegno psicologico e che hanno negli occhi e nelle orecchie i suoni e le immagini della guerra.
Jaidaa, madre di Alì, Sawsan e Ahamd, rispettivamente nove, otto e quattro anni, ci racconta la sua più grande preoccupazione: “Da due anni non vanno a scuola”. Le ore di lavoro pagate al marito non bastano neanche per sfamare la famiglia tutti i giorni. “Le nostre giornate iniziano e finiscono sempre nello stesso modo: parliamo pochissimo e molte volte, quando i bambini cercano di giocare, mio marito inizia a urlargli contro perché non sopporta il rumore. Siamo nervosi e questa situazione si ripercuote sui nostri bambini: la paura è sempre con noi”. La distribuzione alimentare intanto è finita.
Samira si avvicina un’altra volta. Con i suoi occhi fieri e pieni di orgoglio inizia a parlare: “Per favore, fate arrivare la nostra voce all’estero. Noi non abbiamo grandi richieste: ci servono cibo, coperte, materassi e termosifoni per proteggerci dal freddo. Ci basta poco, ma c’è bisogno che qualcuno porti fuori da qui il nostro messaggio”.
Foto: Ibrahim Malla/IFRC
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