“I libici picchiavano i migranti mentre io lasciavo morire una donna pur di salvarne altre quattro”...




Il racconto di un volontario della Sea Watch che ha soccorso i migranti nel Mediterraneo durante il naufragio del 6 novembre scorso, quando 50 persone sono rimaste disperse in mare





“Basta parlare di civiltà mediterranea, il Mediterraneo è pieno di morti”.
Gennaro Giudetti l’ha visto con i suoi occhi.
Era a bordo della nave dell’Ong Sea Watch il 6 novembre, quando un gommone pieno di migranti è naufragato in acque internazionali, a trenta miglia dalla Libia, lasciando circa 50 dispersi in mare.
Si trattava della sua seconda missione da volontario. A 27 anni, Gennaro è partito da Taranto per andare a salvare i disperati che tentano la traversata del Mediterraneo, in un periodo in cui le Ong sono spesso guardate più con sospetto che con ammirazione.

La Sea Watch era partita il 2 novembre da Malta. La mattina del 6 è arrivata la chiamata dal Maritime Rescue Coordination Centre (MRCC) di Roma, che coordina le operazioni di salvataggio in mare: un gommone a poche miglia da loro aveva chiesto aiuto.
Oltre alla nave della Ong, nei paraggi del gommone c’erano una nave della Marina francese e un elicottero della Marina italiana. Via radio, gli equipaggi si sono coordinati: la Sea Watch avrebbe iniziato l’operazione di salvataggio, gli italiani e i francesi sarebbero intervenuti in caso di necessità.
Mentre i volontari si avvicinavano, Gennaro ha iniziato a vedere i primi cadaveri in mare. Ma gli operatori non si sono fermati a recuperarli.

“Sentivamo tante voci dall’acqua che gridavano aiuto”, racconta a TPI. “Per questo abbiamo deciso di pensare prima ai vivi che ai morti”.
Tra i cadaveri che galleggiavano, Gennaro ha scorto anche il corpo di un bambino di due anni e mezzo. “Non ce l’ho fatta a lasciarlo nell’acqua e l’ho recuperato”, racconta. “Vicino c’era anche la mamma, che piangeva. L’abbiamo messa in salvo e ci siamo diretti verso il gommone”.

Gennaro Giudetti, volontario di Sea Watch. Foto Sea Watch

“Picchiavano i migranti con le corde e ci tiravano patate addosso”

Quando i due gruppi di salvataggio dell’Ong sono arrivati sul posto, hanno trovato il gommone dei migranti distrutto e legato a un’imbarcazione della Guardia costiera libica, che non si era coordinata con le altre navi allertate per il soccorso. Alcuni migranti erano già a bordo della nave, ma nessuno stava soccorrendo quelli ancora in acqua, se non lanciando qualche salvagente.
“Quando siamo arrivati noi, hanno iniziato a scalciare gridando di allontanarci”, racconta Gennaro. “La Guardia costiera libica ha provato ad ostacolarci lanciandoci addosso delle patate e anche una ciambella di salvataggio, oltre a quelle che tirava in acqua. Ma devi stare in mare per recuperare la gente, non puoi salvarla dall’alto. Se loro fossero stati lì a salvarli tutti, noi ci saremmo anche fermati”, sottolinea. “Ma non stavano recuperando quelli che erano in acqua. Come avremmo potuto lasciarli morire senza intervenire?”.
Così i volontari hanno continuato i soccorsi, tirando fuori dal mare sessanta persone. Intanto, a bordo della nave libica, i migranti cercavano di alzarsi e saltare giù, perché sapevano che altrimenti sarebbero stati ricondotti in Libia.
“I militari, per tenerli a bada, li picchiavano con delle corde”, racconta Gennaro. “Noi eravamo impotenti, lì sui gommoni”.

“A un certo punto un uomo, vedendo che la moglie era con noi al sicuro, nel tentativo di raggiungerla si è dimenato ed è riuscito a saltare in acqua. Dal momento che non sapeva nuotare, si è attaccato a una corda che pendeva dalla nave. A quel punto l’imbarcazione è partita e non si è più fermata. La moglie, disperata, lo ha visto sparire in mezzo alle onde”.
Foto Sea Watch
Come testimoniano le registrazioni delle comunicazioni via radio, l’elicottero italiano ha provato a intimare alla nave libica di fermarsi e di collaborare con la Sea Watch, ma ormai era troppo tardi.
“I libici non si sono occupati dei salvataggi, hanno solo diviso i mariti dalle moglie, i fratelli dalle sorelle. Perché ovviamente alcuni li hanno presi loro, altri noi”, spiega Gennaro, che non sa dire quando esattamente sia intervenuto l’elicottero. Era più impegnato a guardare in acqua che in alto. “Le persone che erano in mare erano veramente tante, corpi che galleggiavano. Noi poi siamo tornati verso la nave per mettere al sicuro i migranti”.

“Ho dovuto lasciar affogare una donna per salvarne quattro”

“Purtroppo a me è capitato di dover scegliere chi salvare”, prosegue Gennaro. “A sinistra avevo una donna che stava annegando, solo che non riuscivo a prenderla con le braccia perché era troppo lontana. Stavo provando a concentrarmi su di lei quando ho visto che a destra ne avevo altre quattro. Allora mi sono detto: quante ne salvo?”
Gennaro ha deciso di soccorrere quelle quattro. “Mentre aiutavo loro, vedevo la ragazza alla mia sinistra che affogava lentamente, con le bolle che salivano dal pelo dell’acqua, finché è scomparsa. Una scena molto forte, avrei preferito evitare di dover scegliere”, confessa.
“Non è giusto che si muoia ancora così, né che si usi violenza contro i migranti”. Gennaro non ha soluzioni in tasca, ma sente di non poter tacere. “Voglio raccontare quello che ho visto per dare voce a chi non ce l’ha fatta, a chi non ha la possibilità di parlare. Spero che questi racconti arrivino dove devono arrivare e che non ci siano più morti in mare. Vedere facce disperate scomparire nell’acqua è veramente difficile. Per me sono volti, non numeri. Ogni persona che affoga è una vita che se ne va, e questo è straziante”.

Qui sotto il video delle operazioni di salvataggio. ATTENZIONE: Le immagini potrebbero urtare la vostra sensibilità.

                          

(The Post Internazionale)

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