Come mi sono ridotta a pesare 37 chili, divorata dall’anoressia...
Enrica Tinelli racconta a TPI il processo di autodistruzione, iniziato quando aveva 10 anni, che ha consumato il suo corpo fino a renderla inerme e completamente sola
Enrica ha 19 anni e ha conosciuto l’anoressia quando di anni ne aveva solo 12. Ha visto la malattia mangiare il suo corpo. Quel corpo che di mangiare non ne voleva sapere più.
Dell’anoressia si parla tanto, ma resta ancora una malattia difficile da riconoscere, soprattutto per chi vive insieme alle persone che ne sono affette.
Secondo i dati diffusi a marzo 2016 dall’Associazione italiana di dietetica e nutrizione (Adi), in Italia sono circa 3 milioni i giovani che soffrono di disturbi del comportamento alimentare, di cui il 95,9 per cento sono donne e il 4,1 per cento uomini. I decessi in un anno per anoressia nervosa si aggirano attorno al 6 per cento.
Enrica Tinelli ha raccontato a TPI la sua storia, mostrando il suo corpo, prima e dopo aver combattuto la battaglia per rinascere. Vuole che la sua testimonianza aiuti chi soffre di anoressia a guarire e a riconoscere la propria patologia.
“Sono in terapia da quando avevo 8 anni: non ho avuto propriamente un’infanzia spensierata”, dice Enrica. “Le mestruazioni sono arrivate a 10 anni. Mentre tutte le mie compagne continuavano a giocare, io già dovevo prendere confidenza con il mio corpo che cambiava. Ho subito anche violenze psicologiche da parte di un amico di mia zia, fatto per il quale ho dovuto testimoniare in tribunale. Sono successe così tante cose mentre ero una bambina che ho riversato sul mio corpo la mia instabilità, la mia fame di affetto”.
Tra i 13 e i 14 anni Enrica ha cominciato a non mangiare più. Ha trovato ogni tipo di pretesto per ridurre al minimo i pasti, perdendo 17 chili in soli due mesi.
“Spesso ero sola a casa e questo mi permetteva di eliminare merende o pranzi”, racconta Enrica. “Quando dovevo mangiare poi andavo in bagno e vomitavo, mentre facevo finta di fare la doccia. Mi vedevo sempre più grassa. In breve tempo sono arrivata a pesare 47 chili, poi mia madre si è accorta che qualcosa non andava e sono cominciati i ricoveri in ospedale”.
Per lei sono iniziate le flebo con gli integratori, le visite dai medici, il calvario di un rapporto difficile con chiunque.
“Da quando ho cominciato i ricoveri sono spariti gli amici”, spiega la ragazza. “Tutti erano spaventati dalla mia condizione: i miei genitori venivano a trovarmi in ospedale ma li sentivo lontani. Non sono mai riuscita a creare un vero dialogo, a far capire loro quello che provavo. Sono entrata e uscita dall’ospedale non so quante volte”.
Ma anche in ospedale le cose non miglioravano, Enrica prendeva in giro tutti: medici, infermieri e se stessa, evitando ogni tipo di cura. Dopo essere stata dimessa a giugno 2012, è stata nuovamente ricoverata il 7 gennaio 2013.
“Fu un ricovero più brutto del precedente perché avevo anche il sondino nel naso oltre alle flebo nelle braccia”, ricorda Enrica. “Ma questo non fermava la mia ricerca dell’autodistruzione. Svuotavo le sacche alimentari in bagno e le riempivo con semplice acqua e mi rifiutavo di prendere gli psicofarmaci”.
Enrica ha mascherato queste azioni per diverso tempo, ma alla fine il personale dell’ospedale si era accorto che la ragazza continuava a perdere peso e che non stava seguendo le cure. Fu così affidata a un’educatrice e i controlli divennero più stringenti, ma Enrica non aveva alcuna intenzione di farsi aiutare e anche il reparto per i disturbi alimentari sembrò non essere il luogo più adatto alla sua condizione.
La spostarono a medicina d’urgenza, ma questa decisione non fece che aggravare la sua condizione: Enrica era sempre più libera di fare come voleva, ritrovandosi in un reparto con altre persone che non avevano nulla a che fare con i suoi problemi.
Ad agosto del 2013 Enrica pesava 37 chili per un’altezza di 1,60 metri.
“Il 4 novembre del 2013 fui mandata in una comunità educativa, in ospedale non sapevano più come aiutarmi: fu il periodo più brutto della mia vita”, ricorda Enrico. “In comunità c’era un po’ di tutto: molti ragazzi con problemi familiari, storie diverse dalla mia, ma accomunate dalla stessa sofferenza. Mi venivano somministrati psicofarmaci, antidepressivi, ansiolitici. Ero intontita, ma ancora consapevole di quanto succedeva intorno a me. Decisi che non volevo prenderli e cominciai a far finta di assumerli, mentre continuavo a nascondere il cibo”.
Enrica andava in giro mascherando la sua magrezza con vestiti larghi, nei quali nascondeva il cibo, per poi buttarlo di nascosto.
Il suo processo autodistruttivo è andato avanti fino a quando non è riuscita più ad alzarsi dal letto per la debolezza. Questa condizione l’ha costretta in un isolamento forzato, che l’ha tenuta lontana da qualunque attività facessero i suoi compagni e gli altri ragazzi del centro.
“È stato allora che ho capito che dovevo fare qualcosa e riappropriarmi della mia vita”, spiega Enrica. “Non volevo più stare sola, e anche se il rapporto con i miei genitori era complicato dovevo da sola ricominciare a volermi bene. Mio padre pensava che il problema fosse il sintomo e non quello che provavo dentro. Un giorno è successa una cosa che non dimenticherò mai: ero sul letto in comunità, mia madre si sedette accanto a me e mi abbracciò. Mi sentì amata e capì che non era colpa sua se non riusciva a starmi vicino”.
Quel gesto cominciò a invertire la rotta negativa che aveva segnato la sua vita fino a quel momento.
“Ho combattuto contro la forza distruttiva che avevo dentro e ho cominciato a curarmi, ad assumere le medicine e a lavorare su me stessa”, spiega Enrica. “Ho avuto altre ricadute, sono stata lontano dalla mia famiglia tanto tempo, ma nel 2016 sono tornata a casa”.
“Adesso posso dire di stare bene”, conclude. “Mi sento un’altra persona: so riconoscere i segnali di qualcosa che potrebbe peggiorare e questo mi aiuta a prevenire un eventuale ricaduta. Non so se si guarisce mai del tutto da questa malattia, ma so che l’amore aiuta. So che le persone come me hanno bisogno di molto affetto e che a mia volta voglio essere d’aiuto a chi soffre e non ha il coraggio di riprendere in mano la propria vita”...
(The Post Internazionale)
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