E Graziani massacrò i monaci etiopi...
Ottant’anni fa la feroce strage di Debrà Libanòs che seguì l’attentato contro il viceré
italiano ad Addis Abeba. I responsabili di quelle atrocità non hanno mai pagato
di Giannantonio Stella
Feci tremare
le viscere di tutto il clero, dall’Abuna all’ultimo prete o monaco», ringhiava
quel macellaio di Rodolfo Graziani. Rimorsi? Zero: rivendicava anzi la strage
di Debrà Libanòs, dove aveva affidato agli ascari islamici lo sterminio di
tutti i preti e i diaconi del cuore della Chiesa etiope, come «titolo di giusto
orgoglio». E giurava: «Mai dormito tanto tranquillo».
Sono
passati ottant’anni, da quei giorni di orrore. Tutto inizia la mattina del 19
febbraio 1937. Ad Addis Abeba il viceré Graziani e le
autorità italiane che da nove mesi governano un terzo del Paese e son decise a
prendere il controllo del resto con ogni mezzo (compreso l’uso di 552 bombe
caricate a iprite e fosgene autorizzate dal Duce, documenterà lo storico Angelo
Del Boca), celebrano la nascita del primo figlio maschio di Umberto di Savoia.
Improvvisamente, da un balcone raggiunto superando i controlli, piovono ed
esplodono una dopo l’altra otto bombe a mano. Sette morti, decine di feriti.
Tra cui Graziani, colpito da decine e decine di schegge.
La
rappresaglia è immediata. E non avendo sottomano gli attentatori, fuggiti, si
abbatte violentissima su chi capita.
Coinvolgendo tutti i fascisti della città. «Girano armati di manganelli e di
sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada», scrive
nel diario il giornalista Ciro Poggiali. «Vedo un autista che, dopo aver
abbattuto un vecchio negro con un colpo di mazza, gli trapassa la testa da
parte a parte con una baionetta. Inutile dire che lo scempio si abbatte contro
gente ignara e innocente». Una carneficina. Racconterà il vercellese Alfredo
Godio: «Fra le macerie c’erano cumuli di cadaveri bruciacchiati. Più tardi,
sulla strada per Ambò, vidi passare molti autocarri “634” sui quali erano stati
accatastati, in un orribile groviglio, decine di corpi di abissini uccisi».
«Per ogni abissino in vista non ci fu scampo in quei terribili tre giorni»,
ricorderà l’attore Dante Galeazzi: «In Addis Abeba, città di africani, per un
pezzo non si vide più un africano».
Deciso
a farla finita coi ribelli a dispetto di ogni trattato, il Duce dà ordine che «tutti i civili e religiosi comunque sospetti devono essere passati per
le armi». Tutti. Compreso Destà Damtù, il genero di Hailé Selassié. Che importa
dello sdegno internazionale? «E nello scroscio del plotone di esecuzione
echeggiò la più strafottente risata fascista in faccia al mondo», esulta la
«Gazzetta del Popolo». «Schiaffone magistrale (…) sulle guance imbellettate
della baldracca ginevrina». Bilancio complessivo? Migliaia di morti. Compresi
«cantastorie, indovini e stregoni», rei di auspicare il ritorno del Negus: «Ho
ordinato che fossero arrestati e passati per le armi. A tutt’oggi ne sono stati
rastrellati ed eliminati settanta» Il peggio, però, arriva a maggio. Quando
Graziani decide di inviare il generale Pietro Maletti, di cui apprezza la cieca
obbedienza, a spazzare via preti, diaconi, fedeli di Debrà Libanòs,
l’amatissimo monastero fondato nel XIII secolo che considera «un covo di
assassini, briganti e monaci assolutamente a noi avversi»: è convinto che i due
bombaroli di Addis Abeba siano passati nella fuga proprio di lì.
Se sono
veri i rapporti firmati da Maletti stesso, scrive Del Boca in Italiani
brava gente? (Neri Pozza), in due
settimane le sue truppe «incendiavano 115.422 tucul, tre chiese, il convento di
Gulteniè Ghedem Micael (dopo averne fucilato i monaci), e sterminavano 2523
arbegnuoc». Patrioti nemici dell’occupazione italiana. «Era tale il terrore che
diffondeva che l’intera popolazione si dava alla macchia».
Terrore
comprensibile. Per garantirsi la ferocia belluina senza crisi di coscienza tra
i soldati cattolici chiamati a massacrare i cristiani
di una Chiesa etiope che aveva 17 secoli, spiega Angelo del Boca, il generale
rinunciò «a servirsi dei battaglioni eritrei, composti in gran parte da
cristiani, e utilizzava ascari libici e somali, di fede musulmana, e
soprattutto — parole sue — “i feroci eviratori della banda Mohamed Sultan”».
Il
generale e i suoi macellai di fiducia circondarono il complesso la sera del 19
maggio, festa di San Michele, presero
prigionieri tutti e, ricevuto l’ordine del viceré Graziani di passare per le
armi «tutti i monaci indistintamente compreso il vice priore», cercarono il
posto giusto per la mattanza. La scelta cadde sulla piana di Laga Wolde, ai cui
limiti si inabissava un burrone. Due giorni dopo cominciò, sistematica, la
decimazione. Allineati i condannati lungo il baratro, scrivono gli storici Ian
L. Campbell e Degife Gabre-Tsadik, gli ascari presero un lungo telone «e lo
stesero sui prigionieri come una stretta tenda, formando un cappuccio sopra la
testa di ognuno di loro». Poi, la fucilazione. «E mentre un ufficiale italiano
provvedeva a sparare il colpo di grazia alla testa, vicino all’orecchio, gli
ascari toglievano il telone nero dai cadaveri per utilizzarlo per il successivo
gruppo». Ordine eseguito, comunicò Maletti nel pomeriggio: giustiziati 297
monaci incluso il vice-priore e 23 laici. «Sono stati risparmiati i giovani diaconi,
i maestri e altro personale». «Fucilate anche loro», cambiò idea tre giorni
dopo Graziani. E Maletti, ligio agli ordini più infami, eseguì.
Conta
finale: 449 assassinati. Numero che Campbell e Gabre-Tsadik contestano: furono tra i 1423 e i 2033. Il doppio o il triplo di quanti saranno
trucidati dai nazisti a Marzabotto. Berhaneyesus Souraphiel, l’arcivescovo
cattolico etiope, sospira nel docu-film di Antonello Carvigiani e Andrea
Tramontano Debre Libanos, prodotto e trasmesso da TV2000, che ancor oggi certe ferite non sono ancora
del tutto rimarginate. Racconta però lo storico Alberto Elli, profondo studioso
della Chiesa etiope e dell’Etiopia, che il mausoleo in ricordo dell’eccidio, a
novembre, non c’era più: «Dicono d’averlo tolto come gesto di riconciliazione».
Un passo importante. Come fu l’anno scorso, ad Addis Abeba, la stretta di mano
di Sergio Mattarella a vecchi patrioti etiopi. Era stato questo, del resto,
l’appello al popolo di Hailé Selassié al suo ritorno in patria il 5 maggio
1941, a guerra ancora in corso: «Vi raccomando di accogliere in modo
conveniente e di prendere in custodia tutti gli italiani che si arrenderanno
con o senza le armi. Non rimproverate loro le atrocità che hanno fatto subire
al nostro popolo. Mostrate loro che siete soldati che possiedono il senso
dell’onore e un cuore umano». La richiesta del Negus di estradare almeno i due
generali della mattanza, però, non venne mai accolta. E qualche strada italiana
li onora ancora come eroi di guerra…
(Corriere della Sera)
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