Gli haitiani in Repubblica Dominicana: da schiavi a zombi...




Adonis stringe le fasce ai polsi, senza fretta. È un rito quotidiano, come un cerimoniale di concentrazione prima di ogni allenamento. Con la stessa calma si aggiusta il paradenti e infila i guantoni, di un blu acceso, come il cielo terso che sovrasta la Repubblica Dominicana. È nato e cresciuto qui, Adonis, su questo lato dell'isola caraibica dove per primo approdò Cristoforo Colombo con le sue caravelle.



di Raùl Zecca Castel 
E con imbarcazioni simili arrivarono anche i progenitori di Adonis, stipati come animali nelle stive; intere famiglie – catene ai polsi - trafugate dalle coste atlantiche di un'Africa sotto sequestro; intere generazioni piegate alla schiavitù, tagliando canna da zucchero nella Perla delle Antille, la colonia più ricca del mondo. Era circa metà del '700 e lo zucchero muoveva l'economia globale come oggi il petrolio.
Poi la rivolta: teste che si rialzano, e il battesimo col sangue di un'Haiti liberata, prima repubblica nera della storia. Un'indipendenza pagata a caro prezzo, letteralmente, con 150 milioni di franchi d'oro a titolo riparatorio da versare nelle casse dell'ex-madre patria francese, primo passo di una rapida e inesorabile rovina che avrebbe presto ridotto Haiti in ginocchio, schiacciata da un debito inestinguibile. Di qui l'inizio di un esodo mai concluso: orde di uomini, donne e bambini in fuga dal Paese oggi più povero delle Americhe alla ricerca disperata di un luogo, un futuro, un sogno. A muoverli l'idea che attraversare il confine e raggiungere la vicina Repubblica Dominicana potesse restituire loro un briciolo di dignità e speranza.
Anche i genitori di Adonis varcarono quella frontiera insanguinata, cicatrice mai chiusa che come un serpente velenoso taglia l’isola di Hispaniola da Nord a Sud: lei, Celina, giunse in questo lembo di terra promessa ancora bambina e già orfana, stringendo la mano di una zia che presto l’avrebbe abbandonata al suo destino; anni segnati da violenza e patimenti. Lui, Louis, sarebbe arrivato da solo, qualche anno dopo, con la sua vita come unico bagaglio, e senza accorgersene si sarebbe trovato con la schiena piegata e un machete nella mano, a tagliare canna da zucchero da mattina a sera per un salario infame, lontano da tutto, maledicendo confini e bandiere, illusioni da ingenui.
Quella di Celina e Louis fu un’unione come tante, frutto del caso, di troppa solitudine e, più di ogni altra cosa, della stessa imprescindibile necessità: il bisogno disperato di tirare avanti, ad ogni costo, malgrado tutto. Una storia sbagliata, si direbbe, ma non per questo infelice o ipocrita. E’ così che Celina e Louis saldarono il loro amore in un umile covo tra le piantagioni, a trenta chilometri dalla capitale Santo Domingo, nel batey Guanuma, una delle tante comunità-ghetto riservate ai migranti haitiani, retaggio di un segregazionismo razziale che ancora oggi nella Repubblica Dominicana e in troppi angoli della terra stabilisce le gerarchie sociali in base al colore della pelle. Qui il ciclo della vita umana è scandito unicamente dai bisogni primari: mangiare, dormire, riprodursi. Non sorprende dunque che al primo figlio della coppia ne seguano altri, proletariato contadino, braccia che lavorano presto contribuendo all’esigua economia familiare.
È in questo mondo marginale e isolato che nasce Adonis, su una terra scura e umida, coltivata a mais, banane e patate, circondata da canna da zucchero ma soprattutto da tanta intolleranza verso una comunità, quella haitiana, ritenuta colpevole di tutti i mali che affliggono l’isola.
Forse per questo per Adonis la strada si trasforma presto in una sfida, il luogo dove rivendicare e dimostrare il suo diritto all’esistenza, combattendo pregiudizi e soprusi, letteralmente, con i primi pugni a siglare piccole conquiste nella lotta per la sopravvivenza, perché in queste terre di nessuno la legge è quella del più forte.
“La verità è che mi è sempre piaciuto combattere, sono sempre stato un po' attaccabrighe... mi piaceva fare a pugni”, confessa Adonis con un sorriso sulle labbra prima di farsi serio e aggiungere che il pugilato per lui è stata la salvezza: “è sempre stato la mia passione, fin da piccolissimo, anche se da bambino non ho mai potuto praticarlo perché in questa comunità e nemmeno in quelle vicine c'era una palestra, finché un giorno un maestro ha preso l'iniziativa di dare lezioni e così ho cominciato ad allenarmi in modo agonistico... Per me è un modo per sfogarsi da molte cose, ad esempio dai risentimenti, per le cose che non riesci ad esprimere diversamente...e dagli insulti delle persone, da quegli atteggiamenti che ti fanno sentire impotente... è come una forma di espressione...molte volte uno è arrabbiato e si sfoga così, con la boxe, ma allo stesso tempo è anche un modo per imparare a controllarsi, ti insegna a gestire questa rabbia...”.
Così, nell’indistinguibile centro del batey Guanuma, a fianco della stazione delle guaguas - sgangherati minibus che collegano la comunità rurale alla capitale -, tra venditrici di frutta e accaniti giocatori di domino, una piccola pergola a pianta rotonda si è trasformata in una vera palestra a cielo aperto, dove alcuni giovanissimi appassionati di boxe si allenano tutti i pomeriggi sotto lo sguardo curioso e incoraggiante dei passanti. Per Adonis, tuttavia, questo sport non è mai stato solo un passatempo o una valvola di sfogo, fuga e rifugio di un’esistenza condannata, ma una vera ragione di vita, una speranza concreta su cui investire impegno, fatica e talento, il sogno di riscatto per sé e la sua famiglia: “Io aspiro ad avere l’opportunità di dare una vita migliore ai miei genitori e ai miei fratelli”, mi confida con estrema determinazione; una determinazione che lo ha portato a calpestare i ring di tutto il paese, collezionando medaglie che esibisce con orgoglio, come quella vinta al torneo per le selezioni della Federazione Nazionale di Boxe dominicana, una medaglia, tuttavia, che ora ha assunto un sapore decisamente amaro.
Il sogno di Adonis, infatti, sembra essersi infranto proprio nel razzismo e nella macchina burocratica del paese dove è nato. Con una sentenza assai polemica e controversa, emessa nel settembre del 2013, la Corte Costituzionale dominicana ha abolito lo ius soli come criterio valido all’acquisizione della cittadinanza e – fatto ancor più clamoroso - ha applicato tale nuova normativa in modo retroattivo a partire dal 1929. La conseguenza è stata la perdita immediata della nazionalità da parte di oltre 200mila persone, soprattutto di origine haitiana, che da un giorno all’altro sono precipitate nel limbo giuridico dell’apolidia, divenendo a tutti gli effetti dei “morti viventi”, un esercito di zombi privato dei più elementari diritti civili: lavoro, sanità, istruzione...
La dura reazione della comunità internazionale, preoccupata per tale scandalo giuridico privo di precedenti e unanimemente considerato come altamente discriminatorio su base razzista, ha costretto il governo dominicano ad attivare un piano di regolarizzazione degli stranieri che, tuttavia, si è presto rivelato una vera e propria messinscena. Così, tra il giugno del 2015 – scaduto il termine ultimo per presentare la domanda – e il maggio 2016, secondo i dati forniti da Amnesty International, oltre 100mila persone sarebbero state rimpatriate ad Haiti tra minacce, violenze e deportazioni di massa. Molte altre, tra cui Adonis e la sua famiglia, vivono costantemente nel terrore che un giorno, da un momento all’altro, possa arrivare il loro turno e siano costrette così a lasciare la Repubblica Dominicana per “tornare” in una terra che spesso non hanno mai conosciuto.
“Devono dargli i documenti, perché loro sono nati qui, hanno diritto qui, nella Repubblica Dominicana! – si dispera Celina, la giovane madre di Adonis, - Io so che non ho alcun diritto qui, ma i miei figli sì, devono essere registrati come cittadini dominicani. Loro non conoscono Haiti, non hanno nulla lì, non possono andare a cercare i nonni, i fratelli o le sorelle... non hanno nulla da cercare ad Haiti, è qui che devono avere i loro documenti come dominicani. Nemmeno io ho più niente ad Haiti...sono qui da quando ho undici anni...”
Lo sguardo di Adonis si fa lontano e cupo quando gli chiedo del suo futuro, ora che la cittadinanza dominicana sembra essere un miraggio:
“è qualcosa di veramente ingiusto – mi dice rigirando la sua medaglia tra le mani -. Io non ho potuto iniziare a combattere nella Nazionale per colpa di tutto questo. Ma la cosa che più mi rattrista è che non potendo avere un documento, un semplice pezzo di carta, mi sento del tutto impotente perché non avrò l’opportunità di dare alla mia famiglia una vita migliore”.

Quella di Adonis, come quella dei suoi genitori, è ancora una volta una storia come tante, e di nuovo, però, una storia sbagliata. Ma a differenza delle generazioni precedenti, i giovani di oggi hanno la consapevolezza di poter scrivere un finale diverso a questa storia e conquistare quel posto nel mondo che troppo a lungo è stato loro negato. Ne hanno la consapevolezza, la determinazione, il coraggio e la forza.
Molti collettivi e movimenti dominico-haitiani hanno iniziato dal basso una tenace battaglia contro la famigerata sentenza 168/13 e quelle rivendicazioni di giustizia stanno ora guadagnando l’attenzione dei tavoli internazionali. Se Adonis potrà finalmente cominciare ad allenarsi con la Nazionale di Boxe dominicana nessuno lo può sapere. Intanto, però, l’unica medaglia che la Repubblica Dominicana ha conquistato nell’ultima edizione delle Olimpiadi, quelle di Rio 2016, è arrivata proprio da un giovane lottatore di origine haitiana, Luisito Pie. Forse, arriverà il giorno in cui anche Adonis potrà realizzare il suo sogno e diventare un grande pugile come Mohamed Alì. Non ci resta che aspettare, perché quel giorno sarà un giorno migliore, per tutti...
(AgoraVox)

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