Turchia far west, al giornalista dissidente prima sparano poi la galera...




Spari contro il direttore del giornale di opposizione Cumhuriyet a Istanbul. «Traditore della Patria», grida l’attentatore. Il giornalista ne esce illeso ma viene condannato a 5 anni di carcere per aver svelato i traffici turchi di armi con gli jihadisti in Siria. Per i giornali di opposizione, Zeman ad esempio, la normalizzazione filo governativa che porta alla chiusura per cessate vendite. La democrazia in Turchia è in serio pericolo, denunciano le opposizioni laiche al potere personale di Erdogan



Sceneggiatura da film commerciale, più che una storia vera.
Soggetto, il direttore del quotidiano Cumhuriyet, Can Dundar, il bersaglio.
Secondo protagonista, Erdem Gul, capo della redazione di Ankara.
Con loro due, il giornalismo critico in Turchia.
Mestiere rischioso e quindi film d’avventura.
Ambientazione, la piazza davanti al tribunale di Istanbul dove il giornalista attende la sentenza del processo che lo vede imputato per lo scoop sul traffico di armi con la Siria e con il califfato Isis.
Primo colpo di scena: un uomo armato attacca il giornalista sparando più colpi gli urla, «traditore della patria».
Nell’attacco viene ferito a una gamba un reporter di Ntv, a sottolineare la pericolosità del mestiere oggi in Turchia.
Il mancato assassino è un uomo di 40 proveniente da Sivas, in Anatolia, patriota modello Lupi Grigi e ad Ali Agca, l’attentatore di papa Wojtyla.
L’attentatore minore è incredibilmente fortunato visto che riesce a passare armato in uno dei punti più ‘caldi’ di Istanbul dove ci sono almeno tre poliziotti per metro quadrato.
Fortunato due volte, perché mentre si aggira con la pistola in mano tra le gente, nessuno gli spara prima di catturarlo con modi quasi gentili.
Il braccio lungo e inesorabile delle legge, dopo il mancato assassinio sulla piazza.
L’accusa è di quelle da gelarti il sangue nelle vene: spionaggio, minaccia alla sicurezza e sostegno a gruppi terroristici armati.
I fatti denunciati dal giornalismo impiccione, la notizia documentata con immagini di un camion dell’intelligence turca carico di armi pronto ad attraversare il confine con la Siria.
C’è un po’ di confusione sugli imputati. Alla sbarra (come si diceva una volta), ti aspetti chi compie il traffico illegale e non chi lo svela. Invece no.
I giudici hanno accolto la richiesta del capo di Stato (Erdogan) e dei servizi segreti (Milli Istikbarat Teskilati, MIT – Organizzazione Nazionale d’Informazioni) di costituirsi parte civile, prima volta nella storia del Paese.
Colpo di scena giudiziario: il giornalista appena scampato all’attentato viene condannato a 5 anni e 10 mesi di prigione. E gli è andata pure bene.
Assolti dall’accusa di spionaggio, colpevoli di aver rilevato un segreto di Stato. La procura aveva chiesto 31 anni e sei mesi di carcere.
Niente comunque rispetto ai due ergastoli sollecitati da subito degli uomini del furibondo presidente Ergogan.
Con un antipasto di 92 giorni in carcere, in attesa di giudizio prima che la Corte costituzionale definisse la loro detenzione illegittima.

La china autoritaria di Erdogan
L’attentato al giornalista e la sentenza stanno provocando molte reazioni nel Paese. In molti si chiedono dove fosse la polizia e come l’uomo abbia potuto avvicinare così facilmente il giornalista più noto e sotto controllo del Paese. La sentenza è stata definita da molto un «colpo mortale contro la libertà di stampa» e secondo alcuni avvocati non è coerente con i principi della Costituzione.
Ricordiamolo: i due erano finiti sotto processo lo scorso giugno per aver pubblicato sul loro giornale foto e video di camion dell’intelligence turca che passava armi allo Stato Islamico. Uno scoop che era arrivato a pochi giorni dalle elezioni e che aveva fatto infuriare il presidente della Repubblica, Recep Tayyip Erdogan, che aveva chiesto alla magistratura di comminare ai due giornalisti due ergastoli.

Se non colpisci, strangola
Intanto è giallo sulla sorte dell’altro quotidiano di opposizione, Zaman: prima la notizia della chiusura entro il 15 maggio, poi la smentita che non smentisce. “Non abbiamo un piano per la chiusura” di Zaman affermano gli amministratori giudiziari messi lì a normalizzare il quotidiano in senso filo governativo. Semplicemente lo stanno uccidendo per asfisia da lettori.
Zaman era il più diffuso quotidiano di opposizione al presidente Erdogan, prima del suo commissariamento a inizio marzo. Il destino del giornale appare segnato dal crollo delle vendite, scese in poche settimane da oltre mezzo milione ad appena 2 mila, molto al di sotto della soglia di sopravvivenza.
Il sequestro, deciso dai giudici per presunti legami con il magnate e imam Fethullah Gulen, ex alleato ora nemico giurato di Erdogan, aveva rilanciato i già forti allarmi sulla libertà di stampa in Turchia. Il crollo delle vendite aveva portato in precedenza alla chiusura di tv, radio e giornali del gruppo editoriale Ipek, anch’esso commissariato alla vigilia delle elezioni di novembre, sempre per presunti legami con Gulen.
Non è una prima volta, se si tiene conto che il crollo delle vendite aveva portato in precedenza alla chiusura di tv, radio e giornali del gruppo editoriale Ipek, anch’esso commissariato alla vigilia delle elezioni di novembre, sempre per presunti legami con Gulen.
Uno scenario che inquieta ancor di più perché avviene in un momento in cui Erdogan sta aumentando progressivamente il suo potere, fino al punto di rompere i rapporti con il premier Ahmet Davutoglu costringendolo al ritiro...
(RemoContro)

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