Qualcosa sta cambiando per l’ISIS...




Curdi e iracheni stanno attaccando diverse città dello Stato Islamico e le loro finanze sono messe male; poi, certo, rimane il problema di cosa fare dopo




Negli ultimi mesi lo Stato Islamico (o ISIS) ha perso il controllo di diverse cittàirachene e siriane che aveva conquistato nella rapida offensiva dell’estate 2014. Anche per questo da tempo diversi giornali internazionali parlano di “crisi dello Stato Islamico”, per lo meno nei territori nei quali ha stabilito il suo Califfato. Nei prossimi mesi la situazione potrebbe cambiare ulteriormente. Pochi giorni fa è stato annunciato l’inizio di due nuove operazioni militari contro lo Stato Islamico: a Fallujah (Iraq), dove contro l’ISIS combattono l’esercito iracheno e diverse milizie sciite; e a nord di Raqqa (Siria), dove combattono i curdi siriani con il supporto aereo della coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti. Si parla da tempo poi di un attacco per riconquistare Mosul, la seconda città irachena dopo la capitale Baghdad, ma per ora sono solo intenzioni.
mappaFallujah (Iraq) e Raqqa (Siria)
Diversi analisti si chiedono se gli ultimi segnali di debolezza possano far sperare in una rapida fine dello Stato Islamico. In realtà ci sono almeno due cose da considerare. Le operazioni militari appena cominciate potrebbero durare dei mesi: sia per la reticenza dei paesi stranieri a impiegare i propri soldati in Iraq e in Siria, occidentali compresi, sia per le molte precauzioni annunciate per evitare altre violenze tra sunniti e sciiti (in Iraq) e tra curdi e arabi (in Siria). Poi rimane il problema di governare questi territori una volta liberati: come può fare il governo iracheno – sciita – a riottenere la fiducia degli arabi sunniti di Anbar, dopo le discriminazioni e le violenze dell’ultimo decennio? Si può affidare ai curdi siriani il governo di una città come Raqqa, abitata in prevalenza da arabi, dopo le diverse denunce di violenze compiute durante la guerra?
Contro Fallujah
Fallujah è una città che si trova nella provincia irachena di Anbar, a circa un’ora di macchina da Baghdad. «Fallujah è un posto di cui i soldati americani che sono stati impiegati in Iraq hanno pessima memoria», ha scritto l’Economist. Dopo l’invasione americana in Iraq che portò alla destituzione dell’ex presidente iracheno Saddam Hussein, nel 2003, Fallujah divenne il centro dell’insurgency, cioè della ribellione contro l’occupazione delle truppe statunitensi e contro il nuovo governo sciita dell’Iraq (l’Iraq è un paese a maggioranza sciita ma la provincia di Anbar è a maggioranza sunnita: qui ci sono un po’ di informazioni per chi vuole partire da zero). Nel 2004 a Fallujah gli americani combatterono due guerre molto violente contro i rivoltosi sunniti; e all’inizio del 2014 Fallujah fu la prima grande città irachena a finire sotto il controllo dello Stato Islamico che allora si chiamava Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, ed era ancora alleato con al Qaida.

L’attuale attacco a Fallujah è stato annunciato dal governo iracheno pochi giorni fa: alle operazioni stanno partecipando soldati iracheni e alcune forti milizie sciite, che però sono viste malissimo dalla popolazione sunnita di Anbar per una lunga storia di violenze settarie. Il governo ha detto che le milizie sciite non entreranno in città ma si limiteranno a liberare il perimetro facilitando il lavoro dell’esercito (non si sa se le promesse verranno rispettate, anche perché le milizie sciite sono in grado di dare un contribuito rilevante alle operazioni dell’esercito iracheno, che non è proprio il miglior esercito del mondo).
Come hanno scritto diversi esperti giornalisti e analisti, gli Stati Uniti non considerano Fallujah una priorità dal punto di vista militare. Lo sarebbe invece Mosul, della cui riconquista si parla da mesi. Il governo iracheno potrebbe avere scelto di cominciare le operazioni contro lo Stato Islamico a Fallujah per rispondere a una grave crisi politica interna. Dalla fine di aprile, per due volte, i sostenitori del religioso radicale sciita Muqtada al Sadr sono entrati nella “Zona verde” di Baghdad, dove si trovano gli edifici del governo e le ambasciate straniere, per chiedere che venisse approvata una riforma contro la corruzione: e nelle ultime due settimane sono aumentati gli attacchi suicidi compiuti dallo Stato Islamico nei quartieri sciiti della città. La crisi politica potrebbe condizionare anche la guerra contro lo Stato Islamico: gli Stati Uniti temono che le operazioni militari a Fallujah ritarderanno l’attacco a Mosul, la capitale dello Stato Islamico in Iraq, il vero obiettivo degli americani e degli iracheni.
Contro Raqqa
L’annuncio di un’operazione militare per riprendere Raqqa, l’autoproclamata capitale dello Stato Islamico, è stato fatto invece dai curdi siriani, che negli ultimi mesi hanno riconquistato diversi territori prima controllati dallo Stato Islamico (nella grafica in basso il territorio controllato dai curdi è in verde chiaro). Per il momento sembra però che le operazioni siano concentrate a nord della città e pare molto improbabile che l’attacco si estenderà fino a Raqqa, almeno nel breve periodo. Come per Fallujah, anche qui ci sono diversi problemi da considerare. La maggioranza degli abitanti di Raqqa è araba e non vede di buon occhio i soldati curdi addestrati dagli Stati Uniti. Un attivista di Raqqa ha detto al Wall Street Journal che lo Stato Islamico sta usando le tensioni tra arabi e curdi per guadagnare popolarità e screditare l’operazione militare cominciata nel nord di Raqqa.

Fino a non molto tempo fa erano gli stessi combattenti curdi a escludere di attaccarelo Stato Islamico in territori non abitati da curdi. Il rischio che l’attacco a Raqqa si trasformi in una battaglia complicata, lunga e violenta è molto alto, e al momento non sembra che il rapporto costi-benefici possa essere vantaggioso per i curdi. Gli stessi Stati Uniti sono stati molto prudenti a fare promesse ai curdi, per esempio sull’eterna questione della creazione di uno stato curdo. L’ostacolo più grande è la posizione della Turchia, che a sua volta è alleata degli Stati Uniti e dell’UE, e membro della NATO: il governo turco si oppone alla creazione di uno stato curdo vicino ai suoi confini e negli ultimi mesi ha attaccato i curdi sia nel nord dell’Iraq che nel nord della Siria.
Se gli Stati Uniti dovessero appoggiare una qualche rivendicazione di maggiore autonomia dei curdi siriani – molto legati al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK, il partito curdo che opera nel sud della Turchia e che è il nemico numero uno del governo turco) – i rapporti tra gli americani e la Turchia potrebbero danneggiarsi in maniera significativa. Per dire qual è il livello dello scontro: venerdì il governo turco ha reagito con parole molto dure ad alcune foto che mostrano soldati americani delle forze speciali indossare delle giacche con sulle spalle il simbolo dell’YPG, la milizia curda siriana che sta combattendo contro lo Stato Islamico: «È una cosa impossibile da accettare», ha detto il ministro degli Esteri turco Mevlüt Çavuşoğlu.
E quindi si può battere lo Stato Islamico?
Al di là di tutte le difficoltà e divisioni nello schieramento di forze che combatte lo Stato Islamico, qualcosa è cambiato rispetto a un anno fa. Lo Stato Islamico sembra effettivamente più debole, da tempo non ha più la forza per conquistare nuovi territori e in molti casi nemmeno quella per difendersi. Uno degli indizi che sembrano suggerire una crisi rilevante del gruppo è l’aumento del numero di attentati compiuti negli ultimi mesi: diversi analisti hanno scritto che lo Stato Islamico – non avendo le risorse per fare altro – è tornato a colpire i nemici con gli attacchi terroristici, una tattica che aveva usato ampiamente prima di stabilire uno stato su cui governare.
Eric Schmitt, giornalista esperto di terrorismo e Medio Oriente, ha scritto sul New York Times che negli ultimi due anni sono cambiati anche gli attacchi aerei americani contro obiettivi dello Stato Islamico in Iraq e in Siria: «i militari dicono di avere rimediato alle poche informazioni raccolte dall’intelligence e al goffo processo usato per identificare gli obiettivi» della campagna aerea. Oggi gli Stati Uniti sono diventati più efficaci e precisi rispetto ai primi mesi di guerra. Gli attacchi vengono diretti soprattutto contro le infrastrutture petrolifere dello Stato Islamico, una delle fonti di profitto più importanti del gruppo. Sono anche più spregiudicati, perché mirano a obiettivi che si trovano ben al di là del fronte di battaglia e che prima erano evitati per non rischiare di colpire i civili. Nonostante questo nuovo approccio sia stato criticato da diverse organizzazioni, finora si è dimostrato utile per indebolire lo Stato Islamico: «ha danneggiato la sua possibilità di pagare i combattenti, di governare e di attrarre nuove reclute», hanno detto alcune fonti americane militari citate da Schmitt.
Oggi lo Stato Islamico non si trova in difficoltà solo per le pressioni militari ai confini del territorio che controlla, ma anche per le pressioni interne dovute a grosse difficoltà economiche. È difficile dire quanto sarà necessario per sconfiggere lo Stato Islamico: diversi analisti dicono che ci vorrà ancora molto tempo, ma sembra un processo a questo punto inevitabile. Il problema rimane cosa fare dopo dei territori riconquistati, per evitare che si creino di nuovo le divisioni e le tensioni che hanno contribuito in prima istanza alla crescita del gruppo...
(Il Post)

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