Cellulari e zainetto in spalla. Fra i profughi siriani in Grecia che sembrano turisti come noi...




A Symi ora arriva la borghesia, in fuga da un “Paese che non esiste più”. Parlano inglese, vestono all’occidentale. E non vogliono venire in Italia.



Malak ha sei anni, uno sguardo vispo e profondo, due fermacapelli rosa, un cappellino arancione con un orsetto sopra la visiera, una magliettina gialla coi bordini dorati e dei leggings con i fiori. Anche lo zainetto che porta sulle spalle è a fiori. Cammina lungo il porto dell’isola di Symi in Grecia per mano al suo papà. Non mi sarei mai fermato a guardarla, è uguale alle mie figlie, alle loro compagne di classe e a tutte le bambine che possiamo incontrare in questi giorni di vacanza sul lungomare di Alassio, nella piazza di Gressoney o tra i monumenti a Firenze. 

Ma Malak non è una turista e non è nemmeno in vacanza: è appena scesa da un grosso gommone nero in cui stava pigiata insieme ad altre 39 persone. Senza dire una parola si è tolta il giubbottino salvagente arancione, si è messa lo zainetto sulle spalle e poi ha chiesto al papà di aiutarla a sistemare bene le mollette tra i capelli. Malak andava a scuola a Damasco e ora è un numero o forse solo una goccia. Una goccia di quel fiume di persone che stanno fuggendo dalla Siria, più di 4 milioni hanno lasciato il Paese da quando è cominciata la guerra civile nel 2011, un quinto della popolazione che si è rifugiata in Libano, Turchia e Giordania. 

Per quattro anni sono scappati i disperati che si trovavano in mezzo ai combattimenti, quelli che perdevano la casa e finivano nella calca dei campi profughi oltre il confine. Oggi scappano le famiglie borghesi, i professionisti, gli imprenditori, scappa chi ha perso ogni speranza e abbandona lavoro, proprietà, case, terreni, negozi, aziende per salvare la vita. Scappa chi ripete che «La Siria non esiste più» e pensa non ci sia più tempo per aspettare o illudersi.  

Nell’epoca delle semplificazioni nella quale viviamo, l’esodo dei siriani che stanno sbarcando sulle isole greche in queste settimane è solo un pezzo del problema immigrazione che divide la nostra politica, la società e l’opinione pubblica. Parliamo tutti di numeri e facciamo un’unica somma, ma non possiamo tenere queste storie insieme alla migrazione economica che arriva dall’Africa, non c’entra niente: questa è una fuga dalla guerra, una fuga per la vita. Non per un futuro migliore, ma semplicemente per poter declinare ancora i verbi al futuro. 

Scappa chi se lo può permettere, dando origine a una migrazione senza ritorno, ne parleremo tra trent’anni come oggi si fa degli iraniani fuggiti dopo la rivoluzione che hanno creato comunità a Parigi o Los Angeles, o se ne discuterà tra un secolo come si è fatto in primavera con le comunità armene scappate dal genocidio i cui discendenti sono a Milano e Venezia, New York, in Francia e in California. 

50 mila dollari a tratta  
Ma prima di lasciare la parola alla Storia varrebbe la pena che se ne occupasse la cronaca. 
Li ho osservati per tre mattine di seguito, gommoni neri che arrivano all’imboccatura del porto intorno alle otto, partiti poco prima dell’alba dalla costa turca, due o tre ore di navigazione al massimo perché non c’è vento. A bordo sono stipate sempre quaranta persone, tutte con il giubbotto di salvataggio, gli adulti quello nero e rosso della Yamaha i bambini quello arancione.  

Non c’è scafista e non ci sono i cosiddetti mercanti di uomini: ci sono famiglie agiate che comprano un gommone, il motore, i giubbotti e si fanno indicare la rotta da profittatori che ricavano 50 mila dollari da ogni corsa. È la prima tappa di un viaggio che punta al Nord Europa: Germania, Svezia, Danimarca, Olanda le mete che tutti ripetono. Nessuno vuole venire in Italia, un professore di inglese a cui spiego che sono italiano mi dice: «Brutta crisi economica, grande disoccupazione giovanile, assolutamente da evitare». 

Spesso non sanno su che isola sono sbarcati, hanno navigato a vista e nessuno ha tirato fuori il cellulare per paura di perderlo o bagnarlo. Quando spiego che sono arrivati a Symi molti ci restano male, gli avevano raccontato che la rotta ideale è quella per Kos ma gli dico che è uguale, anzi forse meglio perché faranno più in fretta: devono andare alla polizia del porto dove passeranno almeno un giorno e una notte per esser identificati e lasciare le impronte digitali e della mano, poi potranno prendere la nave per Atene. Tutti dicono subito che poi partiranno verso la Macedonia per percorrere la rotta balcanica. 

Non avevo mai assistito a sbarchi di migranti, le immagini che vediamo ogni giorno alla televisione mostrano disperati semiassiderati che vengono coperti dai teli termici o ripescati dal mare, qui invece vedo famiglie che saltano giù dal gommone e cercano di non perdere la dignità, che non si sdraiano per terra, ma si sistemano i capelli e in fila, cercando di non dare nell’occhio, vanno alla capitaneria. Solo una coppia si trascina sfinita, lei ha il pancione e ha bisogno di essere sorretta, negli occhi di lui si legge il terrore che la moglie non ce la facesse o potesse partorire durante la traversata. 

Giovani come i nostri  
Ma alcuni non vogliono passare per profughi, per i derelitti del mondo e vanno a sedersi ai tavolini di un bar del porto. È lì che incontro Issam, con la moglie e quattro figli, due maschi e due femmine. Le ragazze hanno gli occhi truccati e una ha il piercing al naso. Il padre ha la camicia bianca, gli occhiali con la montatura spessa e ordina la colazione con l’aria di un uomo da sempre abituato ad essere rispettato. Faceva l’imprenditore ad Aleppo, produceva motori agricoli, mi parla in arabo e la figlia più grande traduce in inglese: «Ho svenduto o regalato tutto quello che avevo, non c’era più niente da produrre, più niente da vendere e più nulla da comprare. Non rimaneva che partire per salvarsi la vita». 

Issam non ha bisogno di conoscere le cifre ufficiali che parlano di 230 mila morti in quattro anni per sapere che è una fortuna avere ancora tutta la famiglia. Si guarda in giro e poi ricomincia a parlare: «Voglio provare a dare un futuro ai ragazzi. Vogliamo andare in Germania dove abbiamo degli amici». I due figli maschi stanno cercando di collegarsi alla rete wi-fi del bar per controllare la posta e Facebook, sono dei perfetti hipster, quel tipo di giovani con il ciuffo, i capelli rasati ai lati e la barba che vanno molto di moda in Occidente.  

Il rito di chi arriva è sempre uguale: si siedono all’ombra e tirano fuori dallo zainetto in cui è contenuta tutta la loro vita gli oggetti indispensabili. Ogni cosa era stata meticolosamente impacchettata nei fogli di plastica per alimenti per evitare che si bagnasse: documenti (alcuni hanno il passaporto e questo è il primo segno evidente che sono persone benestanti che erano già uscite dalla Siria), telefoni e denaro (euro e dollari). 

Quasi tutti hanno due telefoni, sempre Samsung, batterie di riserva, cavi e cavetti per ricaricare. Tutti cercano subito la linea o un wi-fi aperto, vogliono comunicare che sono vivi e sono arrivati in Europa. 

Un Paese abbandonato  
Vengono da Damasco, Aleppo e Homs, molti ragazzi sono tatuati, uno ha una croce cristiana sul braccio, e tutti hanno rigorosamente le Nike. Tanti di questi sono i ragazzi che mancano all’esercito di Assad, quelli che credono sia finita e non resti che la fuga. Fumano Gitanes e Marlboro rosse, sui pacchetti ci sono le immagini choc dei danni del tabacco e la cosa fa ridere: come se chi ha visto in faccia l’orrore si potesse ancora far impressionare. 

Le ragazze invece si dividono tra quelle con il velo e quelle senza, ma hanno tutte il trucco intorno agli occhi e le scarpe da tennis, le All Star e le Vans sono anche qui le più comuni. Quando sale il sole inforcano occhialoni da sole che nascondono mezza faccia. 

Se ne sta andando la generazione che ha studiato, che parla l’inglese, un Paese che non ha più anima adesso sta perdendo la sostanza del suo futuro. 
Sotto la Torre dell’Orologio, all’imboccatura del porto, si è sistemata la famiglia di Shadi, 42 anni, lui era funzionario governativo, la moglie insegnava inglese, sono fuggiti da Idlib, città vicina al confine turco, a metà strada tra Aleppo e il mare con i tre figli di 9, 5 e 3 anni. «Cercavamo di resistere, eravamo rimasti l’unica famiglia del nostro palazzo, poi il mese scorso in un bombardamento aereo è stata colpita la casa della famiglia di mia moglie, sono morte le sue sorelle e i loro sei bambini. 

Non sappiamo chi sia stato, se l’esercito di Bashar per riconquistare la città che adesso è in mano ai ribelli islamici o gli aerei internazionali, ma abbiamo capito che saremmo morti tutti perché la Siria non ha futuro. Allora ho preso i miei genitori, che hanno quasi settant’anni e li ho portati dai nonni paterni che hanno novant’anni e vivono a Damasco. I vecchi restano, mio padre mi ha detto di andare che per loro il viaggio era impossibile e mi ha dato la sua benedizione. So che non li rivedrò mai più. Siamo partiti di notte, otto giorni fa, abbiamo camminato attraverso le montagne, 11 adulti e 15 bambini. Poi siamo arrivati sulla costa turca e per comprare il gommone abbiamo dovuto pagare 1200 dollari a testa, metà prezzo per i bambini. Appena siamo partiti ci ha intercettati la Guardia costiera turca, hanno cercato di fermarci prima con una lunga asta per bucare il gommone, poi facendoci le onde intorno. Il gommone si è riempito d’acqua, gridavamo tutti di andare avanti, non si può tornare indietro, io non avrei avuto i soldi per un altro viaggio. Questa sera prendo il traghetto per Atene, poi andremo a Salonicco per passare in Macedonia e poi in Serbia. Ho tutte le indicazioni che mi ha mandato via WhatsApp chi è passato. So che dovremmo camminare lungo la ferrovia per giorni e che il problema ora è l’Ungheria che vuole costruire un muro. È l’ultimo scoglio, adesso chiedono mille dollari a testa per farti passare. Ma sono sicuro che alla fine ce la faremo ad arrivare in Svezia». Sorride e mi fissa, spera che lo rassicuri, il bambino più piccolo gioca con un pallone nuovo come se nulla fosse successo attorno a lui, come se fosse ancora nel cortile di casa. 

Un braccialetto in regalo  
Un uomo con i capelli rossi, che rincorre tre figli che non ne vogliono sapere di stare fermi, si intromette nel discorso, era impiegato in un’azienda privata a Damasco: «Anche nella capitale è impossibile vivere, la campagna intorno è in fiamme, nei quartieri periferici si combatte, per andare al lavoro dovevo superare tre posti di blocco e ogni giorno si intensificano i colpi di mortaio e le esplosioni. Non si poteva più restare». 

Un architetto che sta scrivendo una mail su un mini iPad racconta invece di non aver visto la guerra: «Nella mia zona non è passata, ma non esistono più economia e lavoro. Il Paese non esiste più». 
Sullo zainetto del papà di Malak ci sono le etichette di viaggi in aereo, solo lui e la figlia, le ha appena comprato un braccialetto dal tabaccaio e glielo sta legando al polso, cerca di dare alla figlia il senso di una normalità anche se stanno facendo un passo senza ritorno, anche se non sanno che cosa li aspetta. Con loro non c’è la mamma e non ho il coraggio di chiedere dove sia, Malak si mette a disegnare su un album di fumetti usando una scalinata come banco. 

Il gommone con cui sono arrivati è lì abbandonato, pieno di giubbotti di salvataggio, qualcuno si prenderà il motore poi il gommone verrà distrutto. Timidamente un ragazzo mi chiede se lo voglio comprare: «Lo abbiamo pagato un sacco di soldi e recuperarne almeno un po’ ci farebbe molto comodo». Non sa che è sotto sequestro e tra poco sarà squarciato dagli agenti della Guardia costiera. 

Aspetteranno fino a sera di essere identificati, quando ormai è buio sono sfiniti dall’attesa, dal caldo e dalla stanchezza, l’esercito dei ragazzi è sdraiato ovunque, chi dorme e chi fuma, nessuno parla più. Prima del traghetto per il Pireo dovranno vedere due tramonti. Perfino il nostro imprenditore si è addormentato appoggiato a un muretto fuori dalla Capitaneria, il trucco delle figlie si è sciolto, non immaginano quante difficoltà hanno ancora di fronte. Pensano di essere arrivati in Europa, ma non sanno quante ne esistono: nuovi muri, respingimenti, nuove frontiere. Non sanno che è un continente che sta perdendo l’anima come la Siria da cui sono scappati. 

Forse sono rincuorati dai gesti di solidarietà che hanno visto. Perché per un turista che volta la testa c’è n’è uno che si prende cura: un ragazzo di Cipro arriva con una cassa d’uva e si preoccupa anche di lavarla, una coppia di anziani olandesi porta vestiti per far cambiare i bambini, una signora francese è andata a comprare delle Barbie, una famiglia bresciana porta biscotti e una bambina libri da colorare e pastelli. L’Europa è anche questa...
(La Stampa Esteri)

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