Ricorderemo, tra dieci anni, i volti e i nomi di chi ha perso la vita in un "mare di paura"?...
Isabella Ferrari
Tra dieci anni, quando saranno lontani da telecamere e taccuini dei giornalisti, chissà dove, chi si ricorderà e in che modo di Arwa, Imaad, Muhsin, Faiza, Sesen, Iman, Tangela, Ratiba, Majd, Maisa, Ndidi, Saabir, Nala, Mesi, Salma, Wafyia, Issa, Samar. Ciascuno di questi nomi oggi è una speranza di vita, di un luogo sicuro lontano dalle bombe, dalla fame, dalle violenze feroci, dove proteggere i propri bambini e vederli crescere sani e sicuri. Quando in televisione vedo quei volti umiliati in balia del mare, io vedo il loro coraggio. Sovrappongo a ogni volto un nome, una storia tragica, una speranza per sopravvivere.
Sono migliaia di persone che cercano ogni giorno di attraversare il Mediterraneo per raggiungere l'Europa. Non sono piccoli gruppi di disperati che fuggono da situazioni transitorie o persecuzioni personali, non solo almeno, sono quasi popoli, spinti a fuggire dalle sanguinose crisi in Medio Oriente o nel Sahel e nel Corno d'Africa. C'è chi non ha perso solo la propria casa, ma un intero paese, come i 43.000 siriani, tra cui 11.000 bambini anche piccolissimi, che sono arrivati in Italia l'anno scorso e quest'anno, dopo viaggi terribili, durati mesi, attraverso il Libano e la Giordania, poi l'Egitto e la Libia, o i 35.000 eritrei per i quali una dittatura era un tunnel buio senza luce e senza uscita, o i somali e i nigeriani spaventati dalla ferocia del fondamentalismo che non ha tregua.
Inferno. Basta una sola parola per descrivere cos'è la Libia per tutti i rifugiati e i profughi che si affidano ai trafficanti di esseri umani, che organizzano la roulette della traversata dall'Africa all'Europa. Gli operatori di Save the Children che accolgono e assistono i bambini e i minori soli non accompagnati sulle coste sud dell'Italia, la sentono ripetere centinaia di volte in un solo giorno sul molo dei porti dove i migranti sbarcano esausti. Per fuggire da quell'inferno ci vogliono 1.000, 2.000 dollari per persona, 4.000 per una famiglia con 2 bambini. I soldi non sono un problema: quando si è disperati e certi di non poter sopravvivere oltre, ci si gioca tutto ciò che resta. Tenersi stretta la vita, è un problema. Quella vita che non c'è più per almeno 700 persone spinte dai trafficanti pochi giorni fa su un peschereccio stipato all'inverosimile vicino a Tripoli e naufragato durante i soccorsi. Forse c'erano anche molte donne e bambini, chiusi a chiave nella stiva perché non potessero risalire sul ponte durante il viaggio.
Quanto buio, puzza, rumore del motore e del mare c'era in quella stiva, per una donna africana troppo giovane con il suo bambino appena nato? Quanto coraggio serve per essere lì a tentare in tutti i modi di guardare solo avanti, di salvare la propria creatura? Quanta distanza c'era tra loro e il futuro, l'Europa? Poche miglia. Ma l'Europa era molto più distante di così. C'è un mare di paura in mezzo. Da una parte la paura di morire, che però non ha mai fermato neanche uno dei migranti. Ma c'era e c'è, dall'altra parte, la paura di accogliere, di condividere. C' è la mancanza del coraggio di mettere al primo posto la vita di chi è ha rischio, di riconoscersi come il gruppo di paesi più ricco del mondo, con le risorse necessarie per far fronte in modo adeguato a questa emergenza umanitaria.
Certo, la comunità internazionale tutta deve fare molto di più per contribuire a spegnere i conflitti che bruciano interi paesi e producono milioni di profughi disperati e senza futuro. Ma ci sono migliaia di giovani mamme, con i loro bambini, in questo preciso momento, stipate nelle fattorie dei trafficanti in Libia, a subire violenze, a sperare di partire. Ci sono con loro centinaia di ragazzini soli picchiati e torturati per estorcere più denaro ai parenti. Ci deve essere il modo perché tutto quel dolore, tutto quel coraggio, tutta quella vita che spinge forte trovi una risposta di salvezza, subito, e di opportunità, dopo. In questa e in altre battaglie sono al fianco di Save the Children, perché credo che tutti noi dobbiamo sforzarci di vincere la paura di ciò che non conosciamo e affrontare con umana solidarietà un fatto storico come questa migrazione biblica.
Ci sembra di non avere gli strumenti economici, sociali, e culturali. E forse è vero. Se i paesi africani e arabi obbligano fiumi di persone a rischiare la morte pur di fuggire dalle loro patrie, ovviamente non è solo colpa nostra. Ma in parte si. E questo è un fatto. Allora è chiaro che non si può fuggire, o girare la testa, o ridurre tutto all'odio, alle parole d'ordine razziste, alla violenza, al rifiuto degli altri. Ricostruire un equilibrio giusto, vuol dire prima di tutto usare il cervello e anche il cuore. Vorrei che i miei figli, i nostri figli, tra dieci anni, ci potessero giudicare diversamente, che fossero loro a ricordare i nomi di chi ha avuto così tanto coraggio, e magari ritrovarli protagonisti della vita dei paesi che li hanno saputi accogliere...
(L'Huffington Post)
Commenti