Tutte le vite nel volto di Wegasi Il senso della strage, oltre le cifre...



Anche una sola faccia, con la sua storia di vittima o di sopravvissuta, può aiutarci a capire. Può trasformare cifre e bilanci in vita vera.




di Marco Imarisio

Meglio le facce dei numeri. Quando sono enormi i numeri fanno sempre impressione ma se non puoi associarli a persone in carne e ossa finisce che ben presto smetti di pensarci. Statistiche. Anche una sola faccia, con la sua storia di vittima o di sopravvissuta, può invece aiutarci a capire. Può trasformare cifre e bilanci in vita vera, l’unico antidoto all’assuefazione. Non importa se i migranti a bordo della barca affondata una settimana fa al largo delle coste libiche fossero 700, 850 o mille.
Wegasi, ad Atene, dopo il salvataggio in mare
Wegasi, ad Atene, dopo il salvataggio in mare
Tanto non lo sapremo mai. Anche questa tragedia lontana è passata. La sua portata emotiva è già scesa. Con l’effetto collaterale che la prossima volta, perché sappiamo tutti che ce ne sarà un’altra, e poi un’altra ancora, l’indignazione, lo sdegno e la vergogna avranno bisogno di un’asticella più alta, di un bilancio ancora più terribile, altrimenti niente. Siamo più sensibili a quel che sentiamo simile a noi. Il delitto nella villetta di una città poco distante da quella dove viviamo ci coinvolge molto più delle apocalissi lontane. Non c’è neppure da sentirsi in colpa, siamo fatti così. Alla fine di questa settimana tremenda quel che davvero rimane è la foto di Wegasi Nebiat. È la donna dai capelli lunghi che viene soccorsa da un bagnante dopo che il barcone sul quale viaggiava insieme ad altri 100 profughi eritrei si è sbriciolato davanti a una spiaggia dell’isola di Rodi. È la figlia di una tragedia minore, «appena» tre morti. Però visibile nel suo avvenire, filmata nella concitazione dei soccorsi, nella sua disperata volontà di non cedere alle onde.
Adesso sappiamo che ha 24 anni, che viene da Asmara, dove viveva con il padre Johannes, la madre Genet, e un fratello più piccolo. Siccome è la primogenita, il viaggio è toccato a lei. I suoi genitori avevano messo da parte una dote di diecimila dollari per darle la possibilità di cominciare una nuova vita. Dopo una marcia a piedi di quasi cento chilometri lungo il confine sudanese, le sono serviti per acquistare un passaporto falso dai trafficanti, volare in Turchia. E infine salvarsi a stento da una morte atroce a due passi da un bagnasciuga affollato da turisti. Il suo viaggio non è poi diverso da quello di molti altri. La differenza è che l’abbiamo vista, anche solo da spettatori ma abbiamo in qualche modo partecipato al suo dramma.
Per ricordarci che siamo testimoni di una tragedia enorme c’è più bisogno di testimonianze in prima persona che di numeri roboanti senza nome. Le storie servono a questo, una parte per il tutto. Le foto di Wegasi ci aiutano a sentire davvero, rendono possibile immaginare i nostri figli al suo posto. Ci consentono l’immedesimazione. Che poi, a farla breve, significa anche restare umani, o almeno provarci...
(Corriere della Sera)


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