L’ISIS sta perdendo, dice l’Economist...
Sta subendo le prime grandi sconfitte militari, non guadagna più come prima dal petrolio e ci sono malumori interni: ma non significa che sarà facile batterlo.
Il settimanale Economist dedica la copertina del suo nuovo numero allo Stato Islamico (o ISIS), titolandola “Spreading fear, losing ground” (“Diffondendo paura, perdendo terreno”). La tesi dell’Economist è che l’ISIS, dopo i primi mesi di rapida e improvvisa espansione, stia perdendo terreno, denaro e consenso delle popolazioni su cui governa in Siria e in Iraq. Quello che sostiene l’Economist non è una cosa nuova: già da diverse settimane alcuni giornalisti ed esperti di ISIS parlano di un indebolimento generale del Califfato islamico.
L’ISIS ha subito la sua prima grande sconfitta militare alla fine di gennaio a Kobane, città curda nel nord della Siria riconquistata dai combattenti curdi dopo una battaglia durata diverse settimane, e si trova in difficoltà anche a Tikrit, città irachena a nord di Baghdad: Tikrit è controllata dall’estate scorsa dai miliziani dell’ISIS ma sta venendo riconquistata dalle milizie sciite e dai soldati iracheni, con la significativa presenza dell’Iran. L’Economist scrive che rispetto al giugno del 2014, il suo momento di massima espansione, l’ISIS ha perso circa il 25 per cento dei suoi territori.
L’ISIS, che è stato definito il gruppo terroristico più ricco di sempre e anche uno dei pochi che non basa la sua sopravvivenza su donazioni esterne, ha cominciato ad avere anche grandi difficoltà economiche. Gli attacchi aerei sulle installazioni petrolifere compiuti dalla coalizione guidata dagli Stati Uniti hanno ridotto le entrate generate dal traffico illegale di petrolio, che garantivano un profitto giornaliero tra 1 e 2 milioni di dollari (non è quantificabile con precisione il danno provocato dagli attacchi aerei). L’ISIS ha anche ucciso molti degli ostaggi che aveva tra le mani e altri li ha liberati dopo avere ricevuto cospicue somme di denaro dai rispettivi governi. Alcuni analisti dicono che l’ISIS abbia perso circa il 75 per cento delle sue entrate totali.
La riduzione dei profitti, scrive l’Economist, sta inficiando anche la capacità dell’ISIS di fornire servizi sui territori che governa: le popolazioni che vivono sotto l’autorità del Califfato lamentano sempre più spesso violente estorsioni e repressioni e il declino dei servizi pubblici. Nelle ultime settimane sono circolate anche notizie di tensioni interne al gruppo, legate soprattutto alla disparità di trattamento tra combattenti stranieri e miliziani locali. Agli stranieri viene garantito per esempio uno stipendio più alto rispetto ai combattenti siriani o iracheni: all’inizio di marzo, il Wall Street Journal aveva scritto – citando un miliziano disertore – che uno straniero prende 800 dollari al mese, un locale 400 dollari.
L’Economist ha scritto che il successo dell’ISIS si è basato finora sul fatto di avere proposto un modello di successo, per l’appunto: il Califfato sta perdendo terreno perché sta fallendo nel proporre un nuovo modello di società, come invece si era proposto di fare. L’Economist aggiunge però una considerazione che hanno fatto anche altri analisti in passato: la perdita di forza dell’ISIS non significa necessariamente sconfitta nel breve periodo, o un miglioramento successivo della situazione nei territori “liberati”. La campagna militare a Tikrit, per esempio, si sta rivelando più complicata di quanto si pensava, soprattutto per la massiccia presenza di cecchini e le centinaia di bombe IED(“improvised explosive device”) disseminate dall’ISIS lungo le strade nei pressi della città. Inoltre la presenza di milizie sciite conosciute per avere compiuto in precedenza violenze settarie molto brutali nei confronti dei sunniti potrebbe avvicinare le popolazioni locali sunnite all’ISIS, come già successo nella provincia irachena occidentale di Anbar.
La riconquista di Tikrit è vista come “prova generale” per un successivo attacco contro Mosul, la seconda città irachena per grandezza, controllata dall’ISIS dalla scorsa estate. Anche se l’esercito iracheno e le milizie sciite dovessero riconquistare Mosul, scrive l’Economist, rimarrebbe il “problema insolubile” della Siria. Nessuno pensa davvero di attaccare militarmente la città siriana di Raqqa, la proclamata capitale del Califfato islamico, con delle forze di terra. Non il regime siriano di Bashar al Assad, che non ha l’interesse a farlo; non i curdi, che non si spingeranno così al di là dei loro territori; e nemmeno altri gruppi ribelli, che non ne hanno la forza. L’ISIS, dice l’Economist, si è espanso soprattutto sfruttando le difficoltà degli stati falliti, sempre più numerosi in Medio Oriente e Africa: per ricostruire governi solidi serviranno alcuni decenni...
(Il Post)
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