Naufragio 2 agosto, famiglia siriana: Non troviamo i quattro figli, aiutateci...
di Daniele Biella
Amjad e Tahani Abdullah, 33 e 31 anni, non hanno più notizie dei propri bambini di 8,5,3 e un anno da quando l'imbarcazione si è ribaltata al largo della Libia. Salvati e condotti dalle navi di Mare nostrum a Salerno, ora sono a Milano in cerca di verità: "Sono morti? Qualcuno che lo dica. E' insostenibile non sapere dove siano". Ecco il racconto, straziante, del naufragio. Con in coda l'elenco di altri dispersi
Rama, 8 anni. Mohamed, 5 anni. Omar, 3 anni. Israa, 1 anno. Dispersi dalla notte del 2 agosto, quando al largo della Libia, è avvenuto il naufragio della barca piena di migranti su cui viaggiavano con i propri genitori, la madre Tahani, 31 anni, e il padre Amjad Abdallah, 33 anni, che dal momento successivo al salvataggio da parte delle navi dell’Operazione Mare Nostrum hanno chiesto, finora invano, di sapere che fine hanno fatto i loro figli. Abbiamo incontrato i genitori, che in questi giorni dormono nel centro di accoglienza gestito dal consorzioFarsi Prossimo a Milano, devastati dal dolore ma aggrappati alla speranza. Hanno raccontato i terribili momenti del naufragio, gli agghiaccianti retroscena, l’insostenibile mancanza di risposte certe sul destino dei propri figli da parte delle figure competenti che li hanno salvati, e ci hanno chiesto di rendere pubbliche le foto dei loro figli, per attivare ogni canale di ricerca possibile, oltre a quello istituzionale che lentamente sta lavorando, grazie anche alle pressioni di molti volontari di associazioni, per far luce su un dramma che cresce di ora in ora, dato che ai quattro bambini si aggiungono altri 16 minori e almeno 7 adulti dispersi (ma i numeri sono destinati a crescere: dalla pubblicazione del primo articolo sulla vicenda, qui a lato, si susseguono nuove segnalazioni), su quanto accaduto nelle ore successive al naufragio del 2 agosto, concitate anche perché i superstiti di questo sbarco sono stati portati in almeno due luoghi differenti, Taranto e Salerno, il 5 agosto, assieme ad almeno altri mille profughi recuperati in mare in quei giorni. Ecco il racconto, straziante ma colmo di una dignità impressionante, di Amjad, aiutato nella ricostruzione dalla moglie. Un forte ringraziamento al mediatore culturale di Farsi Prossimo, Ahmed Aldayeb, per l’aiuto nel raccogliere la loro testimonianza.
Quando avete deciso di partire e come è avvenuto il naufragio?
Siamo orginari di Damasco. Dal 2011, con l’inizio della guerra, vivevamo in Libia, dove lavoravo già da tempo gestendo una carrozzeria. Anche lì c’è la guerra ora, e dopo 15 giorni chiusi in casa senza acqua ed elettricità abbiamo deciso di partire. Volevamo tornare in Siria, in zone dove la guerra non era cruenta, ma non avevamo i documenti validi dell’ultima bambina, non essendoci l’ambasciata siriana a Tripoli. Così abbiamo pensato all’Europa, in particolare la Danimarca, di cui ci avevano parlato bene. Mia moglie e io abbiamo pagato mille euro a testa il passaggio, i bambini nulla. Siamo partiti da Tripoli con la barca in 550, tra cui 35 bambini e 50 donne, nella parte alta tutti siriani, nella stiva altre persone provenienti soprattutto dal Bangladesh e dall’Africa (come succede in ogni barcone, i posti in alto sono riservati a chi paga di più, ndr). Dopo 8 ore di viaggio, molto tranquille, alle 22.30 abbiamo incrociato una nave petrolifera, che ci ha lanciato dell’acqua e ha inviato un messaggio di Sos alla Marina militare. Le persone dal basso, per la gioia del possibile salvataggio, sono salite è la barca ha iniziato a dondolare fino a ribaltarsi. La petroliera era andata via, dopo essere risaliti a galla siamo rimasti in balia delle onde per almeno un’ora e mezza, prima che arrivassero i soccorsi, ovvero almeno cinque navi.
Quando avete deciso di partire e come è avvenuto il naufragio?
Siamo orginari di Damasco. Dal 2011, con l’inizio della guerra, vivevamo in Libia, dove lavoravo già da tempo gestendo una carrozzeria. Anche lì c’è la guerra ora, e dopo 15 giorni chiusi in casa senza acqua ed elettricità abbiamo deciso di partire. Volevamo tornare in Siria, in zone dove la guerra non era cruenta, ma non avevamo i documenti validi dell’ultima bambina, non essendoci l’ambasciata siriana a Tripoli. Così abbiamo pensato all’Europa, in particolare la Danimarca, di cui ci avevano parlato bene. Mia moglie e io abbiamo pagato mille euro a testa il passaggio, i bambini nulla. Siamo partiti da Tripoli con la barca in 550, tra cui 35 bambini e 50 donne, nella parte alta tutti siriani, nella stiva altre persone provenienti soprattutto dal Bangladesh e dall’Africa (come succede in ogni barcone, i posti in alto sono riservati a chi paga di più, ndr). Dopo 8 ore di viaggio, molto tranquille, alle 22.30 abbiamo incrociato una nave petrolifera, che ci ha lanciato dell’acqua e ha inviato un messaggio di Sos alla Marina militare. Le persone dal basso, per la gioia del possibile salvataggio, sono salite è la barca ha iniziato a dondolare fino a ribaltarsi. La petroliera era andata via, dopo essere risaliti a galla siamo rimasti in balia delle onde per almeno un’ora e mezza, prima che arrivassero i soccorsi, ovvero almeno cinque navi.
Avevate i vostri figli con voi?
Non si riusciva a stare uniti, ma almeno due dei nostri figli li abbiamo avuti sott’occhio fino al momento del nostro salvataggio, avevano tutti il salvagente, così come mia moglie, io no. Ho visto scene disumane, alcuni persone bengalesi trattavano di sfilare il salvagente ad altri, anche bambini, dato che loro non l’avevano. Le persone delle navi non sono intervenuto subito, facevano foto alle persone in mare, per molto tempo hanno tirato su solo quelli che riuscivano ad avvicinarsi alle imbarcazioni, solo dopo hanno recuperato gli altri. Io sono riuscito ad arrivare a una di queste navi e sono stato salvato, l’equipaggio parlava italiano. Ho detto loro “baby, baby”, per far capire che c’erano bambini in mare, loro hanno annuito con uno sguardo tranquillizzante così io, stremato, mi sono rilassato. Mia moglie è stata salvata da un’altra imbarcazione, che a lei sembrava composta da persone filippine, tutte vestite di bianco,è stata trattata bene e la mattina dopo è stata trasbordata sulla nave militare San Giusto, in cui mi trovavo anch’io. Da quel momento abbiamo iniziato a chiedere dove fossero i nostri figli, ma senza ottenere una risposta, l’unico messaggio che è stato dato a tutti era che i feriti gravi erano stati portati altrove con un’altra nave. Siamo rimasti tre giorni su quella nave, prima di essere portati a terra, a Salerno.
Non si riusciva a stare uniti, ma almeno due dei nostri figli li abbiamo avuti sott’occhio fino al momento del nostro salvataggio, avevano tutti il salvagente, così come mia moglie, io no. Ho visto scene disumane, alcuni persone bengalesi trattavano di sfilare il salvagente ad altri, anche bambini, dato che loro non l’avevano. Le persone delle navi non sono intervenuto subito, facevano foto alle persone in mare, per molto tempo hanno tirato su solo quelli che riuscivano ad avvicinarsi alle imbarcazioni, solo dopo hanno recuperato gli altri. Io sono riuscito ad arrivare a una di queste navi e sono stato salvato, l’equipaggio parlava italiano. Ho detto loro “baby, baby”, per far capire che c’erano bambini in mare, loro hanno annuito con uno sguardo tranquillizzante così io, stremato, mi sono rilassato. Mia moglie è stata salvata da un’altra imbarcazione, che a lei sembrava composta da persone filippine, tutte vestite di bianco,è stata trattata bene e la mattina dopo è stata trasbordata sulla nave militare San Giusto, in cui mi trovavo anch’io. Da quel momento abbiamo iniziato a chiedere dove fossero i nostri figli, ma senza ottenere una risposta, l’unico messaggio che è stato dato a tutti era che i feriti gravi erano stati portati altrove con un’altra nave. Siamo rimasti tre giorni su quella nave, prima di essere portati a terra, a Salerno.
Avete denunciato subito la scomparsa dei bambini?
Sì. Sulla nave militare hanno registrato i nostri documenti, hanno fatto una foto a ciascuno di noi, abbiamo dato i documenti a un interprete libanese, civile, sui 30 anni, residente a Malta, che ha raccolto i dati dei nostri figli scomparsi. È stata l’unica persona che ci hanno fatto incontrare, ho chiesto di parlare con un funzionario, con il capitano della nave, ma mi è stato negato. L’interprete ci ha rassicurato, dicendoci che anche un solo telefonino, un orologio perso o qualsiasi altra cosa sarebbe stato riconsegnato una volta a terra, figuriamoci le persone. Poi ci ha detto che avrebbe fatto denuncia della mancanza dei nostri bambini ai suoi superiori. Era il terzo giorno su quella nave: gli abbiamo poi chiesto perché nessuno finora ci ha detto nulla sulle persone che mancavano all’appello, lui ci ha risposto che tutte le informazioni erano riservate, nelle mani del Capitano. E che nessuno poteva parlare con lui. Ancora, abbiamo chiesto perché i primi salvataggi hanno scattato foto e aspettato decine di minuti prima di salvarci, la sua risposta è stata che non potevano far niente fino al segnale di ok del Capitano!
Una volta sbarcati a Salerno, cosa avete fatto?
Qui non ci hanno più chiesto documenti. Ci hanno portati in un centro di prima accoglienza dove ci hanno detto che entro 24 ore dovevamo lasciare il posto, altrimenti avrebbero dovuto prendere le nostre impronte e non saremmo stati libere di andare dove volevamo. Così, avendo chiesto un po’ in giro ai civili che ci hanno accolto, ci hanno consigliato di recarci a Milano, dove ci sarebbero stati dei centri di accoglienza. Anche qui abbiamo chiesto notizie dei nostri figli, e ci hanno detto che i nostri figli li avremmo trovati a Milano…altre famiglie, come noi, hanno perso i figli, le mogli, non sanno dove sono e ora si sono recati in Svezia, in qualche modo ammettendo di non avere più speranze. Ma noi sentiamo il bisogno di provare tutte le strade. Ci sono persone, nostri conoscenti oppure altri siriani che erano sulla barca, di cui non abbiamo più saputo nulla, potrebbero esservi salvate e aver portato con sé i nostri figli non vedendoci. Comunque l’importante per noi, ora, è arrivare a una certezza, anche se negativa.
In che senso?
Siamo sempre stati convinti che l’Europa sia la patria dei diritti umani: chiediamo alle autorità italiane, a chi ci ha salvato, alla Marina, che ci dica come stanno le cose, dove sono finiti i nostri figli. Sappiamo che oltre alla vita c’è anche la morte: se sono effettivamente dispersi in mare, e quindi morti, ce ne faremo una ragione e cercheremo di ricominciare a vivere in qualche modo. L’importante è non vivere più questa incertezza, insopportabile, del non sapere che fine hanno fatto, di tutti che ci dicono di aspettare. Vi chiediamo per favore di accogliere il nostro appello.
Sì. Sulla nave militare hanno registrato i nostri documenti, hanno fatto una foto a ciascuno di noi, abbiamo dato i documenti a un interprete libanese, civile, sui 30 anni, residente a Malta, che ha raccolto i dati dei nostri figli scomparsi. È stata l’unica persona che ci hanno fatto incontrare, ho chiesto di parlare con un funzionario, con il capitano della nave, ma mi è stato negato. L’interprete ci ha rassicurato, dicendoci che anche un solo telefonino, un orologio perso o qualsiasi altra cosa sarebbe stato riconsegnato una volta a terra, figuriamoci le persone. Poi ci ha detto che avrebbe fatto denuncia della mancanza dei nostri bambini ai suoi superiori. Era il terzo giorno su quella nave: gli abbiamo poi chiesto perché nessuno finora ci ha detto nulla sulle persone che mancavano all’appello, lui ci ha risposto che tutte le informazioni erano riservate, nelle mani del Capitano. E che nessuno poteva parlare con lui. Ancora, abbiamo chiesto perché i primi salvataggi hanno scattato foto e aspettato decine di minuti prima di salvarci, la sua risposta è stata che non potevano far niente fino al segnale di ok del Capitano!
Una volta sbarcati a Salerno, cosa avete fatto?
Qui non ci hanno più chiesto documenti. Ci hanno portati in un centro di prima accoglienza dove ci hanno detto che entro 24 ore dovevamo lasciare il posto, altrimenti avrebbero dovuto prendere le nostre impronte e non saremmo stati libere di andare dove volevamo. Così, avendo chiesto un po’ in giro ai civili che ci hanno accolto, ci hanno consigliato di recarci a Milano, dove ci sarebbero stati dei centri di accoglienza. Anche qui abbiamo chiesto notizie dei nostri figli, e ci hanno detto che i nostri figli li avremmo trovati a Milano…altre famiglie, come noi, hanno perso i figli, le mogli, non sanno dove sono e ora si sono recati in Svezia, in qualche modo ammettendo di non avere più speranze. Ma noi sentiamo il bisogno di provare tutte le strade. Ci sono persone, nostri conoscenti oppure altri siriani che erano sulla barca, di cui non abbiamo più saputo nulla, potrebbero esservi salvate e aver portato con sé i nostri figli non vedendoci. Comunque l’importante per noi, ora, è arrivare a una certezza, anche se negativa.
In che senso?
Siamo sempre stati convinti che l’Europa sia la patria dei diritti umani: chiediamo alle autorità italiane, a chi ci ha salvato, alla Marina, che ci dica come stanno le cose, dove sono finiti i nostri figli. Sappiamo che oltre alla vita c’è anche la morte: se sono effettivamente dispersi in mare, e quindi morti, ce ne faremo una ragione e cercheremo di ricominciare a vivere in qualche modo. L’importante è non vivere più questa incertezza, insopportabile, del non sapere che fine hanno fatto, di tutti che ci dicono di aspettare. Vi chiediamo per favore di accogliere il nostro appello.
(Vita.it)
Per ulterioli segnalazioni scrivere a questa mail
chierici@arci.it
Commenti