«Primavere arabe»: dalla speranza al disincanto...
di Mostafa El Ayoubi
Tunisia, Egitto, Libia, Siria, Iraq: con pochissime eccezioni, sia i paesi che hanno vissuto un periodo di rivolte a favore di una svolta in senso democratico sia quelli che non hanno vissuto un cambiamento di regime si trovano ad affrontare problemi vecchi e nuovi a cui è sempre più difficile trovare soluzione.
La grave crisi in cui sono sommersi diversi paesi arabi non sembra avere fine. Il deterioramento della situazione in Iraq, invaso di recente in modo massiccio dai jihadisti, ne è la prova. Dopo le cosiddette «primavere arabe», il vuoto politico lasciato dalle dittature deposte non si può di certo colmare in tempi brevi in mancanza di un terreno culturale in cui possano germogliare i valori della democrazia: i dittatori deposti avevano trasformato in deserti socio-culturali e politici i paesi che avevano «governato» per decenni. È lecito tuttavia interrogarsi sui passi fatti in avanti (o indietro) nel processo di cambiamento politico ispirato alla democrazia. Qual è oggi la situazione politica e sociale in Tunisia, il primo paese in cui i cittadini sono riusciti a cacciare via un dittatore? Come si presenta oggi il panorama politico in Egitto? Che ne è oggi della Libia post-Gheddafi? Ancora più impellenti sono gli interrogativi sulla situazione in Siria: cosa significano le elezioni presidenziali tenute il 3 giugno scorso in un paese devastato dalla guerra, con più di 150mila morti e milioni tra sfollati interni e profughi? Quali sono gli effetti di questa crisi sui paesi confinanti, l’Iraq in particolare, che oggi è invaso dai jihadisti sunniti?
La Tunisia che si barcamena
Una delle principali conseguenze delle «rivolte» arabe è il riemergere sulla scena politica degli islamisti, in particolare i Fratelli musulmani (Fm). Un fenomeno durato poco, perché dopo un anno di governo i Fm sono tornati in clandestinità in Egitto. Inoltre, erano i predestinati a governare la Siria, ma il progetto è fallito. In Tunisia invece, il partito Ennahda è riuscito ad evitare lo tsunami che ha travolto i Fm. Ennahda, che ha dominato la scena politica tunisina, dopo le elezioni legislative del 2011, si è rivelato un attore politico astuto. Ha saputo scendere a patti con le altre forze politiche (laiche). E quando la crisi politica era giunta ad una impasse nell’autunno 2013, i compagni di Said Al-Ghannouchi hanno accettato la soluzione di un governo di unità nazionale e ciò ha consentito di promulgare una nuova Costituzione, allentare la crisi ed evitare soprattutto ad Ennahda di fare la brutta fine dei loro «fratelli maggiori» egiziani. Tra i fattori che fomentano la crisi vi è l’ingerenza di alcune monarchie del Golfo negli affari interni del paese: all’inizio il Qatar e soprattutto ora l’Arabia Saudita – dove vive oggi l’ex dittatore tunisino Ben Ali – che attraverso i suoi petrodollari tiene al guinzaglio la classe politica tunisina. L’attuale presidente, Moncef Marzouki, considera che «le relazioni economiche con l’Arabia Saudita siano più importanti dell’estradizione di Ben Ali». L’ingerenza esterna in questo paese resta tuttavia minore rispetto ad altri paesi arabi, perché la Tunisia è geopoliticamente meno strategica. E ciò consente ai tunisini di avere un margine di manovra per evitare il crollo del paese.
La Libia e le macerie della guerra Usa/Nato
La Libia invece è più strategica nei calcoli geopolitici. È stata governata da una dittatura «nemica» delle potenze occidentali. Cacciare dal potere il dittatore ribelle Gheddafi è sempre stato un pallino per gli Usa. Ci sono voluti 33 anni per riuscirci. Ma a quale prezzo per i libici? Incalcolabile! La Libia oggi è una polveriera con uno Stato fallito. Il paese è frammentato e le milizie jihadiste dominano diverse parti del paese e controllano pozzi di petrolio e porti per la sua esportazione. La nazione più prospera dell’Africa è oggi in ginocchio. Soffre di gravi problemi di sicurezza. Dopo l’assassinio dell’ambasciatore Usa Stevens, il corpo diplomatico di mezzo mondo ha lasciato il paese. E la Libia è diventata una base di smercio di jihadisti da mandare a combattere in Siria. La situazione sembra sfuggire dal controllo degli Usa/Nato. I jihadisti, una volta loro alleati contro Gheddafi, sono diventati i «terroristi da combattere». Washington sembra aver esaurito la sua strategia politica, dopo la fuga, nel marzo scorso, del premier Ali Zeidan, suo uomo a Tripoli. Zeidan fu cofondatore del Fronte nazionale di salvezza in Libia progettato dalla Cia negli anni ‘80 per destabilizzare il regime libico. Il «piano B» sembra l’opzione militare. È indicativa in tal senso la ricomparsa sulla scena libica di Khalifa Haftar, ex generale vissuto per 20 anni «in esilio» a pochi passi dalla sede della Cia in Virginia (vedi Confronti 5/2011). A maggio scorso, Haftar si è autoproclamato capo dell’Esercito nazionale libico, in contrapposizione a quello governativo. Ha inoltre chiesto lo scioglimento del Parlamento eletto nel 2012. Un’operazione simile ad un colpo di Stato! Questa mossa ha fatto infuriare gli ex alleati islamisti che Haftar dichiara di voler combattere. Insomma, ulteriore benzina su un fuoco che stava già divorando il paese. Quale sarà il prossimo piano Usa/Nato?
L’Egitto e il ritorno dei militari al potere
«Incredibile» ma vero: a tre anni e mezzo circa dalla destituzione del dittatore militare Mubarak, è stato eletto presidente dell’Egitto un altro militare: l’(ex) generale al-Sisi, ex dirigente dell’intelligence militare all’epoca di Mubarak e capo delle forze armate e della difesa all’epoca di Morsi. La sua elezione è stata simile a quella di Mubarak nei suoi 5 mandati. Ha ottenuto il 96,7% dei voti. Ma dei 53 milioni degli aventi diritto al voto solo il 47% si è presentato alle urne, percentuale raggiunta solo dopo aver prolungato di un giorno l’apertura delle urne (26-27- 28 giugno). Si è trattato in sostanza di un referendum sulla figura di al-Sisi, che nel luglio 2013 aveva deposto Morsi, la cui elezione come presidente (al secondo turno) è stata ottenuta con il 51% delle preferenze, un dato simile allo standard di voto nelle democrazie avanzate. Al-Sisi ha rispolverato la «vecchia» e lunga tradizione dei rais egiziani, in particolare di Mubarak. Dopo il colpo di Stato, Al-Sisi ha escluso tutti i suoi oppositori di peso (vedi Confronti 5/2014), ha messo al bando il movimento dei Fm, incarcerato molti dei suoi dirigenti, alcuni dei quali rischiano la pena di morte, e represso i suoi sostenitori. Inoltre ha perseguitato e recluso alcuni leader del movimento del 6 Aprile, colonna portante della rivoluzione del 25 gennaio di piazza Tahrir.
I militari – sostenuti dagli Usa che li finanziano a fior di miliardi per mantenere il controllo sull’Egitto, e dai sauditi, che in cambio dell’eliminazione dei Fm, i loro nemici giurati, versano molti soldi nelle casse dello Stato egiziano – sono tornati al potere. E chi sognava la libertà e la democrazia nel paese del Nilo dovrà ricominciare da capo!
La Siria devastata dai jihadisti
Anche in Siria si sono svolte le elezioni presidenziali, il 3 giugno scorso. In molti si sono domandati che senso avesse andare alle urne in un paese devastato dalla guerra tuttora in corso e che finora ha causato oltre 150mila morti e 9 milioni tra sfollati interni e profughi (Le Monde, 4 aprile 2014). Usa, Gran Bretagna, Francia e alleati hanno considerato l’operazione una «farsa». Secondo loro era scontato che al Assad avrebbe stravinto e hanno chiamato i siriani a boicottare la consultazione elettorale. E hanno persino impedito ai siriani che vivono in questi paesi di esprimere il loro voto. Era certamente prevedibile che al Assad avrebbe vinto: ha ottenuto l’88,7%. Ma non era per nulla scontato che tanti siriani sarebbero andati a votare in un paese infestato dai jihadisti che seminano morte e terrore tra la gente. L’affluenza alle urne è stata del 73,8%: un grande successo per l’establishment siriano (e i suoi alleati stretti, Iran e Russia) e una grande delusione per i governi ostili a Damasco che, com’era prevedibile, non hanno riconosciuto la validità dello scrutinio. Come interpretare, quindi, questa inaspettata partecipazione dei siriani alle elezioni? È innanzitutto una conferma che quello che sta succedendo non è una rivoluzione popolare contro al Assad. Andando alle urne la maggioranza del popolo ha riconfermato il sostegno allo Stato siriano. Inoltre la partecipazione a queste consultazioni da parte di centinaia di migliaia di siriani in Libano e in Giordania – che in gran parte hanno votato per al Assad – confuta la tesi secondo la quale la maggioranza dei siriani che vivono all’estero sono degli oppositori scappati dall’oppressione del regime. E, ancora più importante, i siriani, memori di quello che è accaduto in Iraq nel 2003 e in Libia nel 2011, temono la stessa sorte per la Siria se cadesse al Assad, ovvero il fallimento dello Stato e la polverizzazione del paese.
È ormai noto che dietro la guerra contro la Siria vi sono meri obbiettivi geopolitici e al Assad costituisce un ostacolo nel raggiungerli. È una guerra «di nuova generazione» affidata in gran parte ai «soldati di Allah», molti provenienti da paesi stranieri, anche europei, formati, armati e finanziati a partire dall’estero: guerrieri motivati da un’ideologia religiosa, per i quali al Assad più che un tiranno è un kafer (eretico), in quanto alawita, e quindi deve essere rimosso dalla guida di un paese islamico a maggioranza sunnita. Oggi diverse zone del paese sono sotto controllo di questi gruppi estremisti. Ciò spiega in gran parte il fenomeno di fuga in massa dei siriani dalle loro case e città. Ovunque arrivano, instaurano il loro emirato e introducono la sharia, impongono il velo alle donne e perseguitano musulmani e cristiani. Il più virulento e il più organizzato tra questi gruppi è il cosiddetto «da’ish»: lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Siil) di matrice qaedista. Il Siil è riuscito oggi a soppiantare tutti i gruppi combattenti in Siria, compreso quello dell’Esercito libero siriano, ormai scomparso, e quello del Fronte Al-Nousra, con i quali si è scontrato, sconfiggendoli, in alcune zone della Siria. Il suo capo Abu Bakr al Baghdadi è persino entrato in contrasto con Ayman al-Zawahiri (erede di Bin Laden a capo di al Qaeda); e alla fine di giugno si è autoproclamato califfo di questo Stato islamico composto dall’Iraq e dalla Siria (e non solo). Il Siil sembra ben organizzato e dispone di risorse economiche importanti: oltre a ricevere finanziamenti provenienti da paesi arabi del Golfo, dispone di ingenti introiti dal contrabbando del petrolio dei pozzi siriani che controlla (Deir ez-Zuir/ar-Raqqa) e che smercia all’estero attraverso la frontiera turca sotto gli occhi del governo turco. Il Siil tuttavia non è riuscito ad assalire Damasco e si è diretto verso Bagdad. In effetti a partire da giugno scorso il Siil ha sferrato diversi attacchi in Iraq occupandone diverse zone.
Oggi le potenze occidentali si dicono «preoccupate della situazione dell’Iraq», assalito dai jihadisti di al Qaeda. Ma non sono stati gli Usa a creare le premesse di quello che accade oggi lì? Non sono loro – attraverso il Qatar, l’Arabia Saudita e la Turchia – a sostenere i terroristi islamici, Siil in testa, per destabilizzare la Siria? Chi ha creato questo virus al Qaeda, con le sue diverse sigle, come arma di espansione neocoloniale, dispone di un vaccino per fermarlo prima che si propaghi oltre il paese dove è stato innestato? La bandiera nera di al Qaeda oggi viene sventolata anche in città di paesi occidentali: questo virus potrebbe colpire anche chi lo ha creato!
(pubblicato su Confronti di luglio/agosto 2014)
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