Siria, il fallimento della Primavera araba...
di Mauro Pompili
Volevano liberarsi del regime di Bashar al Assad. Ma hanno perso Homs e le altre roccaforti. E sono finiti agli ordini di al Qaeda. Il flop dei ribelli anti-Damasco.
I ribelli siriani abbandonano Homs, quella che all’inizio della guerra civile era stata definita «la capitale della rivoluzione».
Tra le prime città a cadere nelle mani dei ribelli, Homs è stata il teatro di una delle battaglie più lunghe e sanguinose della guerra civile.
Ora, dopo due anni di assedio, le forze dell’opposizione si sono ritirate dalla città vecchia e sono stati evacuati anche i pochi civili rimasti bloccati da mesi in condizioni drammatiche.
SCAMBIO DI PRIGIONIERI. Più di 2.200 persone stanno raggiungere un’area a Nord della provincia di Homs ancora in mano ai ribelli. In cambio il governo di Damasco ha ottenuto la liberazione di 70 prigionieri, in maggioranza libanesi e iraniani, in mano all’opposizione e la possibilità di portare aiuti umanitari in due villaggi sciiti controllati dai ribelli vicino ad Aleppo.
L’accordo è stato raggiunto dopo una lunga trattativa, realizzata con la mediazione dell’ambasciatore iraniano a Damasco e con la supervisione delle Nazioni unite.
ASSAD ORA È PIÙ FORTE. Anche se l’attuazione dell’accordo sta incontrando delle difficoltà, la bandiera di Bashar al Assad è tornata a sventolare sulla città simbolo della rivolta. Soprattutto il governo ha riconquistato un nodo strategico fondamentale per controllare il Paese e le principali vie di comunicazione.
Ma non si tratta di un successo solo di questi ultimi mesi.
RICONQUISTA DEL PAESE. Le forze governative nei giorni scorsi hanno infatti conquistato più della metà di Mleiha, passo importante per riprendere la Ghouta orientale, una zona a Est della capitale roccaforte dei ribelli.
Il confine con il Libano, poi, è ormai quasi completamente sotto il controllo dell’esercito, operazione che ha permesso di ridurre i rifornimenti che arrivavano ai ribelli e di isolare i miliziani asserragliati nella regione a Sud di Damasco. Qui il Fronte al-Nosra, il braccio siriano di al Qaeda, e i jihadisti dello Stato islamico dell'Iraq e del Levante (Isil) continuano combattersi, nonostante l’appello alla tregua lanciato dal capo di al Qaeda, Ayman al-Zawahiri.
Tra le prime città a cadere nelle mani dei ribelli, Homs è stata il teatro di una delle battaglie più lunghe e sanguinose della guerra civile.
Ora, dopo due anni di assedio, le forze dell’opposizione si sono ritirate dalla città vecchia e sono stati evacuati anche i pochi civili rimasti bloccati da mesi in condizioni drammatiche.
SCAMBIO DI PRIGIONIERI. Più di 2.200 persone stanno raggiungere un’area a Nord della provincia di Homs ancora in mano ai ribelli. In cambio il governo di Damasco ha ottenuto la liberazione di 70 prigionieri, in maggioranza libanesi e iraniani, in mano all’opposizione e la possibilità di portare aiuti umanitari in due villaggi sciiti controllati dai ribelli vicino ad Aleppo.
L’accordo è stato raggiunto dopo una lunga trattativa, realizzata con la mediazione dell’ambasciatore iraniano a Damasco e con la supervisione delle Nazioni unite.
ASSAD ORA È PIÙ FORTE. Anche se l’attuazione dell’accordo sta incontrando delle difficoltà, la bandiera di Bashar al Assad è tornata a sventolare sulla città simbolo della rivolta. Soprattutto il governo ha riconquistato un nodo strategico fondamentale per controllare il Paese e le principali vie di comunicazione.
Ma non si tratta di un successo solo di questi ultimi mesi.
RICONQUISTA DEL PAESE. Le forze governative nei giorni scorsi hanno infatti conquistato più della metà di Mleiha, passo importante per riprendere la Ghouta orientale, una zona a Est della capitale roccaforte dei ribelli.
Il confine con il Libano, poi, è ormai quasi completamente sotto il controllo dell’esercito, operazione che ha permesso di ridurre i rifornimenti che arrivavano ai ribelli e di isolare i miliziani asserragliati nella regione a Sud di Damasco. Qui il Fronte al-Nosra, il braccio siriano di al Qaeda, e i jihadisti dello Stato islamico dell'Iraq e del Levante (Isil) continuano combattersi, nonostante l’appello alla tregua lanciato dal capo di al Qaeda, Ayman al-Zawahiri.
A inizio giugno Damasco deve votare per le presidenziali
Tutto questo è avvenuto a meno di un mese dalle elezioni presidenziali, fissate per il 3 giugno. La crisi siriana sembrerebbe dunque arrivata a un punto di svolta favorevole al governo di Damasco.
Molti sono i fattori che stanno contribuendo a questo risultato. Su un piano militare l’esercito ha superato una lunga fase iniziale nella quale era stato colto impreparato e di sprovvista dalle capacità militari dei rivoltosi.
SOSTEGNO DI HEZBOLLAH. «Un grande aiuto è arrivato da Hezbollah», dice aLettera43.it George Khouri, esperto libanese affari militari, «gli uomini del Partito di Dio non hanno solo dato il loro contributo sul campo, ma hanno formato alla guerriglia i soldati di Assad e sono anche riusciti a motivarli. Naturalmente, non si deve sottovalutare il contributo delle armi e degli istruttori arrivati dalla Russia».
STATI DEL GOLFO DIVISI. Anche il mutato panorama internazionale sta giocando il suo ruolo. «Il fronte dei Paesi amici della rivolta appare sempre più diviso. Gli Stati del Golfo, pur continuando a sostenere i ribelli, sono divisi su quali gruppi appoggiare. Anche da quelle parti qualcuno comincia a temere che il sostegno incondizionato ai gruppi più integralisti possa essere un'arma a doppio taglio».
L'AIUTO DI RUSSIA E CINA. Nel braccio di ferro tra Russia e Usa sembra averla spuntata la prima, impegnata nella difesa dei suoi interessi politici economici e strategici ha di fatto bloccato qualsiasi tentativo d'intervento diretto degli Stati Uniti.
«Tutto sommato era facile prevedere che», prosegue Khouri, «Mosca non avrebbe mai abbandonato le basi navali che il governo di Assad gli garantisce. Inoltre, l’asse con Pechino ha paralizzato il Consiglio di sicurezza dell’Onu e ora l’attenzione del mondo occidentale è concentrata sulla crisi Ucraina».
LA PACE SI ALLONTANA. La speranza che la guerra civile siriana si avvii alla conclusione non è molto condivisa in Medio Oriente. Politici e analisti di tutte le fazioni temono che ci si stia avviando a un conflitto di bassa intensità destinato a durare a lungo.
«Ormai in Siria ci sono troppe armi e, per quanto ne sappiamo, molte ancora arrivano», dice ancora Khouri, «difficile in questa situazione arrivare a una pace generalizzata».
Molti sono i fattori che stanno contribuendo a questo risultato. Su un piano militare l’esercito ha superato una lunga fase iniziale nella quale era stato colto impreparato e di sprovvista dalle capacità militari dei rivoltosi.
SOSTEGNO DI HEZBOLLAH. «Un grande aiuto è arrivato da Hezbollah», dice aLettera43.it George Khouri, esperto libanese affari militari, «gli uomini del Partito di Dio non hanno solo dato il loro contributo sul campo, ma hanno formato alla guerriglia i soldati di Assad e sono anche riusciti a motivarli. Naturalmente, non si deve sottovalutare il contributo delle armi e degli istruttori arrivati dalla Russia».
STATI DEL GOLFO DIVISI. Anche il mutato panorama internazionale sta giocando il suo ruolo. «Il fronte dei Paesi amici della rivolta appare sempre più diviso. Gli Stati del Golfo, pur continuando a sostenere i ribelli, sono divisi su quali gruppi appoggiare. Anche da quelle parti qualcuno comincia a temere che il sostegno incondizionato ai gruppi più integralisti possa essere un'arma a doppio taglio».
L'AIUTO DI RUSSIA E CINA. Nel braccio di ferro tra Russia e Usa sembra averla spuntata la prima, impegnata nella difesa dei suoi interessi politici economici e strategici ha di fatto bloccato qualsiasi tentativo d'intervento diretto degli Stati Uniti.
«Tutto sommato era facile prevedere che», prosegue Khouri, «Mosca non avrebbe mai abbandonato le basi navali che il governo di Assad gli garantisce. Inoltre, l’asse con Pechino ha paralizzato il Consiglio di sicurezza dell’Onu e ora l’attenzione del mondo occidentale è concentrata sulla crisi Ucraina».
LA PACE SI ALLONTANA. La speranza che la guerra civile siriana si avvii alla conclusione non è molto condivisa in Medio Oriente. Politici e analisti di tutte le fazioni temono che ci si stia avviando a un conflitto di bassa intensità destinato a durare a lungo.
«Ormai in Siria ci sono troppe armi e, per quanto ne sappiamo, molte ancora arrivano», dice ancora Khouri, «difficile in questa situazione arrivare a una pace generalizzata».
La Siria si spacca con le varie fazioni dei ribelli al potere
Un Paese diviso in due è quindi lo scenario più probabile nel futuro della Siria.
In pratica una profonda frammentazione, con ampie aree al Nord e al Sud e alcune zone nella regione centrali controllate dalle varie fazioni dei ribelli.
«Il rischio maggiore è quello di trovarsi di fronte un nuovo Iraq», prosegue Khouri, «con violenze e attentati diffusi su tutto il territorio».
BASTA RIVOLUZIONE. Eppure tre anni fa il mondo aveva riposto molte speranze in quella che, troppo facilmente, era stata chiamata Primavera araba. Oggi di quelle speranze in Siria restano 150 mila morti, 10 milioni tra profughi e sfollati interni, un’economia distrutta e una guerra infinita.
Dalle voci che si raccolgono tra i rifugiati in Libano emerge che molti siriani, che inizialmente avevano dato il loro appoggio alla rivolta, non la condividono più. Vorrebbero tornare a una vita normale e hanno paura dell’estremismo islamico che dilaga nelle cosiddette zone liberate del Paese.
PAESE SENZA TOLLERANZA. «Forse non avevamo la democrazia, ma il nostro era un Paese tollerante», spiega Hovig Demirdgian, un armeno fuggito da Kassab dopo la conquista da parte dei ribelli di al Nosra, «noi cristiani non eravamo discriminati, le scuole e gli ospedali erano per tutti». Ma ora le cose sono cambiate: «Sono dovuto scappare a Beirut, trovare cibo in Siria è difficile, curarsi impossibile e un mio caro amico a Raqqa è stato decapitato, solo perché era armeno».
In pratica una profonda frammentazione, con ampie aree al Nord e al Sud e alcune zone nella regione centrali controllate dalle varie fazioni dei ribelli.
«Il rischio maggiore è quello di trovarsi di fronte un nuovo Iraq», prosegue Khouri, «con violenze e attentati diffusi su tutto il territorio».
BASTA RIVOLUZIONE. Eppure tre anni fa il mondo aveva riposto molte speranze in quella che, troppo facilmente, era stata chiamata Primavera araba. Oggi di quelle speranze in Siria restano 150 mila morti, 10 milioni tra profughi e sfollati interni, un’economia distrutta e una guerra infinita.
Dalle voci che si raccolgono tra i rifugiati in Libano emerge che molti siriani, che inizialmente avevano dato il loro appoggio alla rivolta, non la condividono più. Vorrebbero tornare a una vita normale e hanno paura dell’estremismo islamico che dilaga nelle cosiddette zone liberate del Paese.
PAESE SENZA TOLLERANZA. «Forse non avevamo la democrazia, ma il nostro era un Paese tollerante», spiega Hovig Demirdgian, un armeno fuggito da Kassab dopo la conquista da parte dei ribelli di al Nosra, «noi cristiani non eravamo discriminati, le scuole e gli ospedali erano per tutti». Ma ora le cose sono cambiate: «Sono dovuto scappare a Beirut, trovare cibo in Siria è difficile, curarsi impossibile e un mio caro amico a Raqqa è stato decapitato, solo perché era armeno».
Sabato, 10 Maggio 2014
(Lettera 43)
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