SUDAN. Khartoum, Nel campo profughi di Mayo...
(le foto sono di Federica Iezzi)
di Federica Iezzi
Roma, 11 aprile 2014, Nena News - Era il 09 luglio del 2011 e il Sudan si lacera in due stati. Nasce il Sud Sudan. Nei lunghi anni di guerriglia tra nord e sud, migliaia di profughi provenienti dal sud del Paese, si sono riversati come fiumi in piena in questo posto dimenticato da Dio. Piramidi di valigie, cartoni, sacchi di tela che diventano giacigli cenciosi, sono ammucchiati su traballanti carretti. Figli seminudi sguazzano nella melma.
Il campo profughi di Mayo. Nasce nell’area di insediamento chiamata Angola, un dimenticato sobborgo di Khartoum. Quaggiù ci sono generazioni perse, contadini senza terra, migliaia di profughi che neppure qui hanno diritti. Tutte le foto sono attimi rubati alle estreme condizioni di miseria e disagio. 50 anni di conflitto, due guerre civili e milioni di morti segnano gli abitanti delle variopinte tribù.
Una giungla di case costruite con fango e paglia secca, tetti fatti con lamiere svigorite. Il campo si gonfia come se non sapesse più come contenersi. In mezzo, per sopravvivere, ci si aiuta come sI può. Nessuna strada asfaltata. Vecchi stracci bianchi e vermigli, intrisi della sabbia del Sahara trascinata dal vento, sono stesi intorno ai cortili di queste catapecchie, come a proteggere gli sguardi delle persone che non hanno voce. Tutto quello che riescono a fare è tenersi in vita respirando. Capre scheletriche, sagome umane vestite di stracci, qualche scarno somaro carico di tutto e di niente.
Sporchi di polvere e terra fulva, scalzi, spesso nudi o solo con lunghe magliette sudice che arrivano alle ginocchia, i bambini sono sui margini delle strade. Aspettano di bere dai rivoli di acqua che scorrono lerci sulla terra che costeggia i muri delle case. Sono lì seduti e aspettano. Un uomo costruisce mattoni con la fanghiglia che si accumula vicino i rifiuti. Il sole cocente fa il resto.
Alti, snelli, dalla carnagione vigorosamente scura, i ragazzini giocano a calcio con palloni creati dalla bizzarra unione di spago, paglia e pezzi di copertone. Chissà magari sognano di poter scappare da quell’inferno, grazie al pallone. Ma chi si accorgerà mai di loro?
E poi ci sono le donne. Giovanni donne che sembrano sessantenni. Sulla schiena portano il figlio più piccolo, legato armoniosamente al loro corpo scarno, grazie ad un gracile telo. In braccio il figlio più leggero, quello che non mangia mai, quello malnutrito. Attaccati alla lunga jellabiya di lino ruvido, lo stuolo dei figli più grandicelli. Sono all’eterna ricerca dell’acqua. L’acqua è la più miracolosa tra le medicine.
Aspettano con pazienza, senza dire una parola, con i bambini arrotolati addosso: allattano e scacciano mosche. Sono ogni giorno ferme ad aspettare la distribuzione delle medicine per la malaria, degli intrugli per la malnutrizione, delle vaccinazioni. Le donne i cui figli non ce l’hanno fatta, stringono tra le mani il tasbeeh, invocando come un’inquietante litania i novantanove nomi di Allah, tanti quanti i grani del rosario.
Fuori è mezzogiorno, il campo si piega su se stesso tra afa, pulviscolo e abbandono. Si accendono gli altoparlanti sui lontani minareti. E’ il tempo della preghiera.
(Nena News)
Commenti