Festival del Film di Roma: Siria, ‘confine’ del mondo...
di Federico Pontiggia
Centomila vittime, due milioni di profughi, in gran parte bambini, rifugiati in Egitto, Turchia, Libano e Giordania. Sono le cifre della guerra in Siria, ma la politica che fa? E i mass-media? Domande tristemente retoriche, a cui il regista Alessio Cremonini ha risposto con un film, Border, “nato dall’indignazione per l’assenza della politica e le lacune del mondo dell’informazione, perché quella che si sta consumando in Siria, a sole tre ore di volo da Roma, è una tragedia che nessuno vuole vedere”.
In anteprima a Toronto e ora al festival di Roma, Border nasce da una storia vera, raccontata al regista da una rifugiata, e inquadra Aya e Fatima, due giovani sorelle profondamente religiose che vivono sulla costa a Baniyas: la loro quotidianità è spezzata da un emissario dei ribelli, che rivela la decisione del marito di Fatima, un ufficiale, di disertare e unirsi all’Esercito Siriano Libero. Per scampare alla sicura vendetta dei servizi segreti e dei miliziani della Shabiha, Aya e Fatima devono lasciare la casa e cercare riparo in Turchia: il viaggio incontra mille ostilità, e peggiora quando si unisce Bilal (Wasim Abo Azan, oggi rifugiato in Svezia), un giovane con più di una morte sulla coscienza…
Budget di circa 100mila euro, Border non ha chiesto il finanziamento statale, perché “sono alla mia opera prima, non mi sembrava giusto l’aiuto pubblico – dice Cremonini – in un momento in cui mancano i soldi persino agli ospedali”, ma è stato possibile grazie al produttore Francesco Melzi d’Eril, cui si sono associati Ilaria Bernardini, Leopoldo Zambeletti e Victoria Cabello, con “soldi di tasca propria, contatti e aiuto prezioso”. Location nel Lazio, a sceneggiarlo con il regista (già penna con Saverio Costanzo di Private), Susan Dabbous, free-lance italo-siriana che ad aprile 2013 è stata sequestrata per 10 giorni in Siria: “A me il compito di dare al film realismo, dai fucili al codice etico dei miliziani, perché oggi non è più il Paese che hanno conosciuto Sara e Dana”, ovvero, Sara El Debuch e Dana Keilani, rispettivamente Fatima e Aya, entrambe nate a Damasco e da anni trasferite a Roma.
Purtroppo, altre cose le accomunano: “Su Facebook ho visto la foto di mio cugino morto, mentre Dana ha visto il video di un cugino torturato”, confessa Sara, e per tutte e due la lista dei parenti uccisi dalle truppe di Assad o dai ribelli è molto più lunga. Sanno bene che Border non cambierà la situazione sul campo, ma “come è successo a Toronto anche qui può aiutare a sensibilizzare, a far capire che l’indifferenza è sempre sbagliata”, senza necessariamente designare un solo colpevole: “Non dipende solo da Assad – dice Dana – ma da tutti, chi va in Siria per combattere, con i lealisti o con i ribelli, e chi se ne frega, la comunità internazionale”. Ancor più netta Sara: “Prima della guerra ero orgogliosa di avere un presidente come Assad, il più occidentale dei paesi arabi, ma oggi? Ha le sue colpe. Ma non è l’unico, è bastato uno speech di Obama perché non ci fossero vittime per un giorno, ma poi che ha fatto, che fa l’America?”.
A marzo saranno tre anni di guerra, per ora la Resistenza della prima ora ha lasciato il passo ai jihadisti: “La religione da strumento è divenuta fine, il Califfato islamico, e i partigiani dell’insurrezione contro la dittatura ora non hanno più voce in capitolo, sono tagliati fuori, contro al Qaeda non possono nulla, il sequestro di Padre Paolo insegna”, dice Susan Dabbous. E scuote la testa: “Oggi la situazione sul campo è terribilmente complicata, non esistono buoni e cattivi, ma laradicalizzazione, la confessionalizzazione e l’internazionalizzazione del conflitto ha confuso le carte. Assad verrà giudicato dalla storia per questi tre anni, gli Usa sul piano politico hanno dimostrato disinteresse, nel solco del disimpegno dal Medio Oriente dopo la propria crisi finanziaria, mentre sottobanco hanno armato micro-gruppi di ribelli, lo stretto necessario perché Assad non riconquistasse il pieno controllo sul Paese”. Rimane Border, e Susan e Alessio concordano: “Fiction e realtà, cinema e giornalismo, speriamo che questa miscela apra gli occhi, e scuota le coscienze”.
(Il Fatto Quotidiano)
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