La primavera araba «inquinata» da interessi esterni...

Il patriarca di Gerusalemme Fouad Twal fa il punto sulla difficile situazione dei cristiani in Medio Oriente. «In Siria la comunità è distrutta. E nessuno parla più del conflitto tra israeliani e palestinesi ma siamo in condizioni drammatiche»...


Reduce dalla 50ª assemblea dei vescovi latini delle regioni arabe, il patriarca latino di Gerusalemme, Sua Beatitudine Fouad Twal, secondo arabo dopo mons. Sabbah, fa il punto sulla situazione dei cristiani in Medio Oriente, sui rapporti con Israele, sulla guerra in Siria. A cominciare dalla delusione causata dalla piega presa dalla cosiddetta Primavera araba: «All’inizio sembrava tutto bello – ammette il patriarca – non c’era alcuna voce antimperialista. Si chiedevano dignità, lavoro, libertà per le persone. Le stesse cose che abbiamo chiesto noi vescovi nel Sinodo: in fondo, il primo grido di “primavera araba” è venuto da noi, per questo aveva tutto il nostro appoggio. Poi sono prevalsi interessi politici e commerciali che vengono da fuori». Con l’impronta dei Fratelli Musulmani. «In Giordania (il Patriarcato ha competenza anche su quel Paese, ndc) tutte le manifestazioni sono state organizzate dai Fratelli Musulmani ma il governo, con lungimiranza, non si è opposto, non ha mostrato i muscoli, anzi, li ha accompagnati. In breve si sono calmati e ora la situazione è sotto controllo. In Siria è andata diversamente. Assad ha usato il pugno duro e ora per gli estremisti è l’occasione di vendicarsi. I giornali giordani riportano i festeggiamenti dei salafiti nei locali pubblici di Amman per la morte dei loro come martiri a Damasco». I cristiani sono accusati di sostenere il regime di Damasco. «In realtà i cristiani in Siria sono erano una minoranza ben vista e protetta, anche perché non rappresentavano un pericolo per il regime». E ora? «Ora sono bravi se riescono a proteggere le loro famiglie. Non esiste più un “pubblico” cristiano, una comunità cristiana. Sono dispersi, uccisi, distrutti, come il resto della popolazione». Molti cercano scampo all’estero. «In Giordania c’è mezzo milioni di rifugiati siriani ma ci sono anche 700.000 egiziani e la situazione dei profughi è insostenibile, ancor di più per i cristiani. Due mesi fa è venuta da me una giovane signora, architetto, il marito ingegnere, a chiedermi piangendo di fare qualsiasi lavoro pur di non restare nei campi. La Caritas giordana sta facendo un lavoro meraviglioso con tanti giovani volontari. Non possiamo essere indifferenti a questo conflitto». Ma non si può neppure accettare un regime sanguinario come quello di Assad. «La situazione precedente ha avuto la benedizione dell’Occidente per 45 anni. È un dittatore, certo. Ma chi offre la garanzia che quello che verrà dopo sarà meglio? Chi può dire dove sta il male e dove sta il bene? Si parla di diritti umani, ora siamo giunti al paradosso che l’Arabia dà lezioni... Perché non hanno cominciato da lì? Perché c’è tanto zelo per la Siria e si dimentica completamente il conflitto israelo-palestinese? La nostra situazione è peggiorata ma nessuno osa dire che quella di Israele è un’occupazione militare». E la Chiesa cosa fa di fronte a questa situazione? «Diamo la priorità all’educazione. Il Patriarcato ha 119 scuole, con 75.000 alunni. In Galilea studiano insieme cristiani, israeliani e musulmani; in Giordania cristiani e musulmani. Penso che quando i bambini giocano a calcio insieme è il miglior dialogo possibile. Da tre anni, poi, su impulso di Benedetto XVI c’è un’università in Giordania con 1150 studenti. Quella Cattolica di Betlemme, infatti, è sotto il controllo di Israele e dai Paesi vicini non tutti possono accedervi. Oltre a questo penso alla grande veglia per la pace, a Gerusalemme abbiamo pregato tutti insieme. C’è un prima e un dopo quella giornata: prima si discuteva solo su che tipo di guerra si dovesse fare in Siria, dopo quale soluzione diplomatica fosse possibile. È stato un miracolo, grazie al nostro “esercito di fedeli”. Ciò non toglie che abbiamo paura. Gas o non gas, la guerra è guerra. La situazione è complessa. L’Occidente è deluso da un’opposizione al regime divisa che in due anni non ha ottenuto risultati. Per questo gli americani volevano intervenire per dare il colpo finale al regime. Ma anche la Russia ha i suoi interessi, perché in Siria ha l’unico sbocco sul Mediterraneo». Anche in Israele e in Palestina, però, la situazione dei cristiani non è rosea. «Come dicevo, c’è una situazione di occupazione militare. Dipendiamo da Israele per le minime cose, dall’acqua alla luce, dobbiamo chiedere permessi per le incombenze della vita di ogni giorno». Però Israele è una democrazia. «Vi sembra democratico che un cristiano di Gerusalemme che sposa una ragazza giordana o dei Territori debba lasciare la sua casa e andare altrove? Oppure che un musulmano che ha meno di 50 anni, 40 per le donne, non possa andare a pregare in una moschea? I cristiani possono arrivare dal Giappone a pregare al S. Sepolcro ma non possono farlo dal Libano o dalla Giordania. A Gaza qualche anno fa c’erano 4000 cristiani. Ora sono 1333. Vivono in una prigione a cielo aperto, e in più sono sotto la minaccia dei terroristi di Hamas. Se uno ottiene il permesso, per Natale o Pasqua, di andare a Gerusalemme non torna nella Striscia, se ne ha la possibilità. Noi cristiani siamo pochi ma abbiamo la voce per gridare. Lo scorso anno abbiamo subito 20 atti vandalici, 12 di estremisti ebrei e 8 di islamisti. Siamo la Chiesa del Calvario ma non dimentichiamo che siamo anche la Chiesa della Resurrezione, della speranza». Nessuna possibilità di dialogo? «In Medio Oriente non si può mai separare la politica dalla religione. L’unica strada è il bene che facciamo concretamente». Anche se la costruzione dei muri, come quella di nuovi insediamenti coloniali, non aiuta. «Con i muri c’è più sfiducia, più odio. I muri, prima di essere costruiti, sono nel cuore degli uomini. Significano che non si vuole sapere niente dell’ altro. Separano famiglie, fedeli, parrocchie. A Natale e Pasqua Israele concede il permesso a 10-15 cristiani di Gerusalemme di spostarsi per pregare. Quasi tutti vanno a trovare una zia, un nipote, una nonna oppure vanno a fare acquisti nei supermercati israeliani, nell’unica occasione che hanno. Pochi vengono da me, ma lo capisco! Però contiamo su una solidarietà mondiale, sulla preghiera di tanti amici e pellegrini. Posso davvero dire che non ci sentiamo soli».
Andrea Acali
(Il Tempo.it)

Commenti

AIUTIAMO I BAMBINI DELLA SCUOLA DI AL HIKMA

Post più popolari

facebook