Dall’altra parte del mare – Non prendere in braccio mia figlia...

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 Tra gli sfollati e i profughi – Zona di confine tra la Turchia e la Siria. Hatay è talmente addentra verso sud che ci sono zone della Siria più a Nord. La zona centrale è viva anche a notte fonda e lungo le rive dell’Oronte un’infinità di bar, pasticcerie e locali intrattengono la gente. Camminando per strada è facile sentire, oltre alle persone che parlano turco, anche chi parla arabo, con marcata inflessione siriana. Andando verso sud cambia completamente lo scenario: case piccole sparse qua e la e tante nuove costruzioni. La guida mi spiega che sono state realizzate con l’inizio della crisi in Siria: se prima un appartamento veniva affittato a 400 ryal, ora arriva a costarne anche 1000. È il business che sì lega indissolubilmente alle tragedie umanitarie. Chi non va nei campi profughi e può prendere una casa in affitto paga, facendo anche molti sacrifici. Chi, invece, è fuggito prima del grande esodo, ha trovato rifugio in alloggi vari. È notte fonda; in cielo un meraviglioso spicchio di luna illumina il paesaggio. Arrivati ad una rotatoria, un cartello mi manda in tachicardia: Halep, Aleppo. È la città delle mie origini, città che non ho mai visto. Chiedo quanto disti e mi dice che sono circa 60Km. “Quelle sono le montagne siriane, la periferia di Aleppo inizia lì”, mi spiega. Allungo una mano e con le dita posso accarezzare la mia amata città. Arriviamo a destinazione. Mi indica con la mano una catapecchia bassa con il tetto coperto da lastre di amianto arrugginite. Qui vive Em Khalid, domani sarà il tuo primo incontro.
Notte insonne, ma oltre a tutto ciò che serve per scrivere ho con me un libro. Accendono la lucina e inizio a leggere. Poi arriva Morfeo, che se ne va all’ alba al canto del muezzin.
Verso le otto sono in giro a far foto. “È arrivata la vedova di cui ti ho detto ieri”. “Non andiamo noi da lei?”- chiedo un po’ sorpresa. “Non possiamo. Ora capirai perché”. “Salam aleikom, sono Em Khalid”, mi dice. Ha una voce lieve e lo sguardo profondo. Avrà sì e no 38anni. Sì siede sulla sedia di fronte a me. Con le mani continua a tirar giù i lembi del suo velo. Inizia a parlare. Sembra emozionata come una bimba. Mi racconta che viveva a Hama ed è fuggita per mettere in salvo i suoi quattro figli. Hanno camminato per due giorni tra le montagne, poi lì hanno portati in Turchia alcuni giovani. Hanno dormito qualche giorno sotto il gazebo di un giardino, poi la donna ha trovato una vecchia catapecchia abbandonata e sì sono sistemati lì. Non hanno il bagno, non c’è acqua, non ci sono mobili, nulla. Convivono con ratti e scarafaggi. I suoi figli hanno preso la scabbia e ora hanno macchie sul corpo. Non ha soldi per tutte le medicine; fa pulizie per mantenere i figli, ma le basta appena per comprare da mangiare. I medici le hanno dato medicine anche gratuitamente, ma le hanno detto che se non cambia casa le cure sono inutili. La riaccompagno a casa; quando apre la “porta”, una lastra di amianto arrugginita come quelle sul tetto, esce una bimba di quattro anni. Ha gli occhi neri, due perle grandi e luminose. Mi guarda; poi alza le braccia verso me. Mi piego per prenderla in braccio ma la madre mi ferma. Non puoi prenderla in braccio, può contagiati. La piccola è lì davanti a me, ma non posso sfiorarla. La madre le dice di tornare dentro. Continuo a guardarla e lei guarda me, poi sparisce nel buio di quel rifugio impossibile.
Provo come una vertigine. Mi sento piccola. Mi sento inutile. Sento sulle spalle il peso dell’umanità che abbandona i suoi figli. Abbasso miseramente i miei occhiali scuri e vado verso l’auto. Mi aspettano al vicino centro di cura. Una parte di me è morta in quel mancato abbraccio.

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