In fuga dall’Eritrea: da cosa scappano i migranti che arrivano in Italia...


L'Eritrea non è un paese in guerra, eppure molti dei suoi cittadini scappano, rischiando la vita in un viaggio pericoloso, pur di andare via.



Gli eritrei sono una delle nazionalità più numerose tra i migranti che arrivano in Italia dall’Africa. Secondo i dati più recenti del Ministero dell’Interno, dal 1 gennaio 2018 sono arrivati sulle nostre cose 2.233 eritrei (dato aggiornato al 15 giugno 2018), secondo solo ai tunisini (2.946), e seguiti dai sudanesi (1.202). Sono circa 5.000 gli eritrei che ogni mese fuggono dal loro paese.

Il viaggio dall’Eritrea all’Italia, e all’Europa in generale, che attraversa Etiopia, Sudan, Libia, può durare anche 2 anni ed è una tratta pericolosa, caratterizzata da abusi, violenze e spesso torture.

Molti eritrei che arrivano in Italia non rimangono nel nostro paese, e tentano di proseguire il loro viaggio in Europa verso altri paesi. Secondo i dati Eurostat, la maggior parte degli eritrei in Europa si trova in Svizzera, Germania, Paesi Bassi, Svezia, Norvegia e Regno Unito.

Ma cos’è che spinge gli eritrei a intraprendere il pericoloso viaggio attraverso il Mediterraneo? Da cosa fuggono? E perché fuggono, nonostante il paese non sia in guerra?

Per capire perché gli eritrei scappano dal loro paese bisogna fare una serie di salti indietro nel tempo. Al 1993, quando l’Eritrea ottiene l’indipendenza dall’Etiopia, dopo una guerra durata 30 anni. E sempre al 1993, quando il dittatore Isaias Afewerki prende il potere. Potere che dopo 25 anni non ha ancora abbandonato.

L’Eritrea si trova nel Corno d’Africa ed ha un Pil pro capite di 1.400 dollari, uno dei 10 paesi con il pil procapite più basso al mondo, secondo il World Factbook della Cia. Per renderci conto del valore, basti pensare che il primo paese in classifica, il Liechtenstein ha un pil di 138mila dollari, mentre l’Italia, che si trova al 49esimo posto su 220, ne ha uno di 38mila dollari annui.

L’Eritrea è stata dichiarata ufficialmente colonia italiana nel 1890, con la stipula del trattato di Uccialli tra il Regno d’Italia e l’impero di Etiopia (2 maggio 1989).

Eritrei in fuga: i dati
Dall’inizio del 2018 sono 2.233 gli eritrei giunti in Italia. Se si prendono in considerazione i soli dati sulle richieste di asilo si può notare come nel 2017 sono state 269, il 26 per cento del totale, le richieste di status di rifugiato accolte dall’Italia. L’anno scorso le richieste di asilo totali esaminate dall’Italia sono state 81.527, e di queste 1.081 provenivano da cittadini eritrei.

Delle circa mille richieste, 269 hanno ottenuto lo status di rifugiato, 109 la protezione sussidiaria, 10 la protezione umanitaria, 42 non sono state riconosciute, mentre il resto ha avuto altri esiti non specificati, secondo i dati del ministero dell’Interno.

Il picco di richieste di asilo (e riconoscimenti di status di rifugiato) da parte degli eritrei si è avuto nel biennio 2013-2014, con 850 riconoscimenti su 1.499 richieste nel 2014 e 930 accoglimenti su 1.522 richieste nel 2013.

Dittatura
L’Eritrea, in cui non ci sono elezioni dal 1993, è di fatto un regime dittatoriale, senza libertà politiche e di associazione, senza potere giudiziario e fonti d’informazione indipendenti.

Le tensioni con la vicina Etiopia restano alte e la minaccia di un ritorno in guerra è usata dal governo per giustificare il regime oppressivo.

Nonostante la costituzione preveda il multipartitismo, nel paese è presente un unico partito, quello del presidente Isaias Afewerki.

Povertà
I periodi di conflitto prolungati e la grave siccità hanno influenzato negativamente l’economia – una delle più povere del continente – basata principalmente sull’agricoltura.

Le Nazioni Unite hanno accusato il governo di crimini contro l’umanità. Secondo le stime Onu, centinaia di migliaia di eritrei sono fuggiti dal paese negli ultimi anni, intraprendendo un pericoloso viaggio attraverso il Sahara e il Mediterraneo, fino all’Europa.

Leva obbligatoria “perenne”
Per legge, ogni eritreo è costretto alla leva obbligatoria di 18 mesi, ma in pratica il periodo di servizio militare è indefinito, durando spesso più di un decennio. È questo uno dei motivi che spinge la popolazione a scappare. Le condizioni del servizio militare sono considerate al pari della schiavitù e i soldati sono spesso costretti ai lavori forzati, oltre che ad abusi fisici e torture.

Il servizio militare “perenne” che può prolungarsi anche per tutta la vita diventa così pervasivo da impedire il normale svolgimento della vita privata dei cittadini. L’Eritrea viene spesso definita “la Corea del Nord dell’Africa”, o “prigione a cielo aperto”, e sono all’ordine del giorno esecuzioni extragiudiziali, schiavitù sessuale e lavoro forzato.

Secondo il rapporto dell’Onu, il governo di Asmara è responsabile di violazioni dei diritti umani diffuse, che hanno creato un clima di paura in cui il dissenso è represso.

Un servizio militare così invadente è giustificato, secondo la propaganda governativa, dal fatto che il paese ha bisogno di un esercito per difendere la propria indipendenza dalla possibile intromissione della vicina Etiopia. L’Etiopia infatti, secondo il governo eritreo, non rispetta la decisione delle Nazioni Unite sui confini, stabiliti al termine dell’ultimo conflitto tra i due paesi nel 2000.

I salari dei soldati variano tra i 500 e i 9 750 nakfa (la moneta locale), cioè fra i trenta e i quaranta euro al mese e non sono assolutamente sufficienti a garantire una vita dignitosa.

Quando, all’inizio degli anni novanta, l’Eritrea conquistò l’indipendenza dall’Etiopia dopo una lotta di liberazione durata decenni e guidata, tra gli altri, dal presidente Afewerki, il periodo di leva doveva durare solo 18 mesi.

Ed era pensata per salvaguardare la sicurezza della fragile nazione appena nata e garantire manodopera per la ricostruzione delle infrastrutture e dell’economia, distrutte dalla guerra.

Diritti umani
Nei rapporti Amnesty International recenti sui diritti umani si delinea un quadro disastroso della situazione politico-sociale del paese africano.

International parla di “restringimento dello spazio politico e negazione persistente dei diritti fondamentali”. In Eritrea – prosegue il rapporto – non è presente nessuna opposizione politica, non esistono partiti, media indipendenti, né è permesso alle organizzazioni civili di operare.

Migliaia di prigionieri politici e “prigionieri di coscienza” (coloro che vengon imprigionati sulla base ad alcune caratteristiche come razza, religione, colore della pelle, lingua, orientamento sessuale e credo politico senza aver usato o invocato l’uso della violenza) continuano ad essere detenuti arbitrariamente senza un processo. Secondo Amnesty International, dal 1993 ad oggi sono state 10mila le persone detenute senza un processo.

La tortura e altri trattamenti crudeli, inumani e degradanti sono all’ordine del giorno. Il dissenso è costantemente represso e qualunque critica al governo può costare cara.

I motivi della detenzione arbitraria di prigionieri sono tanti: dalla critica all’operato del governo, allo svolgimento della professione giornalistica, dalla pratica di una religione non riconosciuta dallo stato alla diserzione del servizio militare, fino al tentativo di fuga dal paese.

In tutti questi casi l’arresto e la detenzione senza un processo è estremamente diffuso, tanto da infondere tra i cittadini eritrei il terrore per ogni comportamento, pubblico o privato che sia

Migliaia di cittadini – in particolare attivisti, dissidenti e giornalisti – sono incarcerati senza un giusto processo.

Reporter senza frontiere classifica l’Eritrea al 179esimo posto su 180 paesi nel suo World Press Freedom Ind...

(The Post Internazionale)

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