La condizione delle rifugiate in Burundi. "Noi, ripudiate perché violentate in Congo"...
Donne e bambini del Congo vivono in situazioni difficili nei campi profughi del Burundi. Gvc racconta le loro storie in occasione della Giornata internazionale del rifugiato.
Vittime di violenza, ripudiate e isolate; in molti casi sviluppano disagi psichici e disturbi post traumatici che aggravano la loro condizione di emarginazione nei campi. E’ la drammatica fotografia delle condizioni nelle quali molte donne e bambine congolesi vivono nei centri di salute di Gvc, all'interno dei campi dell'Unhcr in Burundi. Sono le stesse rifugiate a raccontare di una fuga che sembra non portare mai a una vera salvezza. Nella Giornata internazionale del rifugiato 2018, Gvc ricorda: “Secondo le Nazioni Unite, ci sono stati 15 mila casi accertati di violenze sessuali in Congo. Molte sono bambine”.
La storia di Alizia. “Sono arrivata in questo campo cinque anni fa. Sono fuggita dalla mia terra, il Congo, a causa della guerra civile. I Mai-Mai hanno attaccato il nostro villaggio, uccidendo e violentando le donne. Io ero una di loro. E' toccato anche a me, quando ancora ero poco più che una bambina. Ed è così che sono rimasta incinta per la prima volta. Mia figlia è nata qui, in Burundi, e ora la sua vita è insieme a me e alle sue sorelle, in questo campo nella Provincia di Ruyigi. Mi manca così tanto la vita nel mio villaggio”. Alizia ha solo 22 anni, anche se ne dimostra molti di più. Oggi ha già tre figlie che vivono con lei nel campo di Bwagiriza diretto dall'Unhcr, che oggi conta 10 mila rifugiati (il 51% sono donne e bambine), all'interno del quale Gvc gestisce i centri di salute, fornendo assistenza sanitaria, lavorando alla prevenzione contro l'HIV e sensibilizzando ai temi della violenza contro le donne, della salute psichica e riproduttiva, oltre che al contrasto alla malnutrizione.
Il lavoro di Gvc. Presente in 4 centri di salute nei campi delle province di Muyinga, Ruyigi, Cibitoke e nell'area rurale di Bujumbura, l'organizzazione sostiene 58 mila rifugiati, dei quali un quarto sono bambini sotto i 5 anni. I casi di violenza sono tanti e spesso lasciano segni indelebili sulla psiche di donne e bambini. Karikumutima Theobard, uno degli infermieri di Gvc che lavorano nel campo di Kavumu, racconta: “Una giovane rifugiata congolese ha sviluppato disagi psichici post traumatici in seguito a un attacco militare nel suo villaggio, durante il quale ha subito violenza. Fuggita in Burundi per salvarsi, è stata sottoposta a un'ennesima umiliazione e a un nuovo dolore - continua -. Suo marito l'ha disconosciuta a causa di ciò che le era accaduto e la sua famiglia si è divisa”. Oltre al trauma e alla violenza, anche la colpevolizzazione e lo stigma. Un dolore troppo grande da sopportare. Una ferita dalla quale non è semplice guarire. Tanto più quando si viene abbandonati da tutti. Perché, nei campi grandi come megalopoli, essere donna ed avere un disagio psichico o un disturbo post traumatico costituisce un ulteriore fattore di rischio.
Stigma e emarginazione. Avere una malattia mentale o neurologica, così come una disabilità, significa essere esposti maggiormente a discriminazione ed emarginazione. “Gli epilettici, ad esempio, vengono spesso isolati all'interno dei gruppi di amici e in alcuni casi anche all'interno delle famiglie stesse” spiega Karikumutina Theobard. Herimana Anastasie, assistente sociale di Gvc nel campo di Kavumu, ogni settimana organizza delle visite alle famiglie dei rifugiati residenti nel campo che hanno bisogno di assistenza, mentre sostiene le donne nei problemi che affrontano prima e dopo la gravidanza, ricevendole presso il centro di salute di Gvc. “Sul fronte del planning familiare, dell'educazione sessuale e del rispetto di genere, c'è ancora molto da fare - dice -. Bisognerebbe educare anche gli adolescenti. Non di rado, infatti, si verificano episodi di maltrattamenti tra ragazzi e ragazze”.
Essere ripudiate. Le condizioni di vita nel campo sono difficilissime. Kwizera Tierriy Hubart, agente di sensibilizzazione ai rischi dell'HIV nel centro di salute del campo dal 2013, spiega: “I mariti di molte donne sono stati uccisi o sono dispersi in Congo. In altri casi, le donne sono state ripudiate dopo aver subito violenza. Così sono costrette a sposarsi di nuovo, per ottenere protezione e stabilità, ma spesso con scarsi risultati. Ricordo il caso di un uomo che sottraeva parte del pacchetto alimentare destinato alla sua famiglia per darlo alle altre sue amanti- continua-. Sopravvivere nel campo non è semplice. Per questo alle volte sono costrette a vendere i propri corpi ad altri uomini e si assiste a casi di promiscuità che espongono ancora di più alla contrazione e alla diffusione dell'HIV”. Per quanto chi vive nei campi abbia la sensazione di essere precipitato in un limbo, le storie più drammatiche rimangono quelle vissute nel proprio paese di origine. “Ho assistito a così tanti casi di donne che arrivavano qui dopo aver vissuto violenze terribili! Ricordo la storia di Gloria, una ragazzina di 23 anni che è stata violentata dai militari governativi ugandesi. Sono entrati in casa nel suo villaggio per uccidere il marito che si era schierato con l'opposizione a Musaveni. Lui è fuggito, lei, invece, è stata barbaramente violentata. Fuggita in Ruanda insieme alla sua famiglia, ha capito di non essere ancora al sicuro. Per questo poi ha scelto di venire in Burundi”. “La violenza sulle donne e sulle bambine, in guerre come quella in Congo così come in tutte le altre, viene usata come arma da guerra- spiega Dina Taddia, presidente di Gvc-. In Congo, alle violenze si aggiunge anche l'ignoranza: spesso le vergini vengono violentate perché si crede che l'atto possa rendere immuni o far guarire dall'HIV- continua Taddia-. Quella in Burundi è una delle sfide più importanti che stiamo affrontando, per la mole di rifugiati e per le frequenti emergenze cui dobbiamo rispondere. Ma anche perché agire in questi centri sanitari significa non solo sostenere i bisogni ma anche contribuire a diffondere buone pratiche e ad agire sulle consuetudini e sulle abitudini culturali”...
(Globalist)
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