Le storie di chi ha 'adottato' i bambini di Chernobyl dopo la strage del 26 aprile 1986...


In  questi 32 anni più di 500 mila provenienti dalle zone contaminate sono stati ospiti di famiglie italiane: le loro storie. Tra difficoltà e amore.


di MATTEO INNOCENTI
Ventisei aprile 1986, 1:24 di notte. Unione Sovietica, nei pressi dell'odierno confine tra Ucraina e Bielorussia. Un errore durante dei test di sicurezza provoca l'esplosione del reattore numero 4 della centrale atomica di Chernobyl (in realtà vicino alla città di Pryp"jat'). Rapidamente una nube radioattiva investe le aree circostanti, in particolare di regione di Homel', in Bielorussia. Poi, spinta dai venti, arriva a minacciare tutta l'Europa. Nello scoppio perdono la vita tre persone e nelle settimane successive, a causa delle radiazioni, muoiono 28 soccorritori. Ma il disastro è a lungo termine, tra tumori, leucemie e bambini nati con malformazioni. Con livelli di radioattività superiori a Hiroshima e Nagasaki, Chernobyl entra tristemente nella storia, rivelandosi il più grave incidente nucleare mai verificatosi. Da allora sono passati 32 anni. In questo lasso di tempo, più di 500 mila bambini provenienti dalle zone contaminate sono stati ospiti di famiglie italiane nell'ambito dei cosiddetti 'soggiorni di risanamento', che fin dai primi Anni '90 hanno innescato nel nostro Paese una gara di solidarietà. Anche se il numero dei bambini ospitati è in costante diminuzione, per molte famiglie italiane questo progetto, che aiuta piccoli ucraini e bielorussi, rimane un appuntamento fisso, irrinunciabile, atteso tutto l'anno.

«UN'ESPERIENZA CHE TI GONFIA IL CUORE»
«Finora abbiamo ospitato otto meravigliose bambine, provenienti da poveri paesini sperduti nella campagna della provincia di Braghin. La più piccola, Svetlana, aveva sette anni, mentre la più grande, Anghelina, 11». Proprio l'età che ha adesso Elisa, figlia di Marcella ed Ellis, coppia di Formigine che da otto anni, a luglio, ospita bambine bielorusse grazie all'Associazione Chernobyl Maranello. Come racconta mamma Marcella, Elisa è figlia unica ma è come se ogni anno acquistasse una sorella diversa: «Essendo una mamma italiana, dopo due giorni che vivi a casa mia, ti nutro, ti curo, ti vesto... Sei mia figlia!», spiega, precisando però che non è tutto così automatico: «Detto così sembra semplice ma non lo è: ci sono bimbe che vogliono attenzioni, abbracci e baci, e che richiedono tutto questo esplicitamente. Altre, invece le devi conquistare pian piano, rispettando i loro tempi». Nessun problema per Elisa, invece, capace di giocare per ore e ore con loro, pur parlando in italiano e ricevendo risposte esclusivamente in russo. Per il 'papà italiano' instaurare un rapporto è più complicato: «Nel loro Paese la figura del padre è legato a fenomeni di abbandono e se invece sono presenti spesso bevono, non lavorano e la responsabilità della famiglia, anche economica, è interamente sulle spalle della madre. Quindi non tutte riescono ad aprirsi con lui». Nonostante qualche difficoltà, anche linguistica, Marcella non ha dubbi. Ospitare una bambina bielorussa è un'esperienza unica: «Si potrebbe riassumere in tre fasi: 'Perché no?', 'Chi me l'ha fatto fare?' e 'Mai più senza!'. Questi bimbi, con le loro risate, i loro abbracci e i loro baci ti gonfiano il cuore e lasciano un vuoto enorme quando vanno via. Ma sai che hai fatto del bene, mostrando loro anche un nuovo modello di famiglia»


DALLA DIFFIDENZA AL LASCIARSI ANDARE
Se Marcella ed Ellis accoglie ogni anno accoglie una ragazzina diversa, c'è chi invece ospita sempre lo stesso 'bambino di Chernobyl', come nel caso delle famiglie dell'associazione Smile di Cavallermaggiore. Mauro, Luisella e Christian, oggi 16enne, ospitano dal 2007 Mikalay, per tutti Kole, che nel luglio di quell'anno arrivò a Cortemilia insieme agli altri ragazzi bielorussi.
«Sceso dal pullman lo portammo a casa dove si era radunata tutta la famiglia. Lui, che non sapeva una sola parola in italiano, rimase seduto sul divano e non volle mangiare nulla. A un certo punto iniziò anche a piangere. Dramma! Poi, magicamente, il nostro cagnolino andò a scodinzolare proprio davanti a lui: Kole si mise ad accarezzarlo, Christian involontariamente gli schiacciò la coda e con il guaire del cane ci fu un attimo di trambusto, con una risata generale a cui partecipò anche Kole. Da lì un rilassamento generale, i due ragazzini cominciarono poco alla volta con gesti a capirsi e dopo pochi giorni giocavano insieme normalmente». Al punto che adesso, racconta questa famiglia di Cortemilia, i due sono praticamente fratelli. Insomma, la lingua potrebbe sembrare una barriera insormontabile, ma invece non lo è: «Con Google Translator, gesti e i disegni non è stato così difficile. Al primo pasto fatto insieme, abbiamo trovato che ad entrambe piaceva l'anguria e l'emoticon con i cuori che ha disegnato sul tablet mi ha fatto subito capire che sarebbe diventata speciale per la mia vita», racconta Monica, che da quattro anni ospita Снежана (Sni per gli amici, spiega), una bambina bielorussa che abita a pochi chilometri dal confine con l'Ucraina. In fondo, da piccoli si impara velocemente: «Dopo una settimana contava fino a 20 in italiano. Ogni momento diventava apprendimento: quando attraversavamo le strisce pedonali le contavamo, quando eravamo in macchina cantavamo le canzoni della radio, la sera leggevamo le storie prima di addormentarci. Alla sua partenza, si faceva capire parlando italiano, e dal secondo viaggio in avanti non ha più voluto usare il traduttore».

LA COMUNICAZIONE È COMPLESSA
Le vere incompresioni, spiega Sonia, possono essere quelle relative alle emozioni: «Siamo abituati a bambini che fanno i capricci, che piangono, che chiedono cose, che hanno paura. Lei invece sembrava anestetizzata, totalmente impenetrabile. Diventava taciturna e si isolava non lasciandosi avvicinare in alcun modo. C'è voluto tempo per trovare un canale comunicativo che le permettesse di esprimersi, e oggi quando sente qualcosa di difficile per lei da dire verbalmente, lo disegna». Un altro esempio? Nelle fotografie Sni non sorrideva mai, e non lo fa nemmeno adesso in quelle che poi manda alla madre in Bielorussia. Forse perché là un bambino non può nemmeno permettersi di essere tale, di essere spensierato. Deve crescere velocemente: «Da quando sono nate le sorelline si occupa di loro come un'adulta... Responsabilità ben diverse da quelle che ha quando viene in Italia! La prima mattina che era qui, alle 7 del mattino era già seduta sul letto rifatto, vestita e con in testa la corona giocattolo che le avevo fatto trovare il giorno prima. Questa immagine è indelebile».

NEI POSTI IN CUI QUEI BAMBINI VIVONO
Quello che per noi è strano, altrove è la normalità. E, se a volte questi bambini provengono da famiglie disastrate, spesso hanno avuto semplicemente la sfortuna di nascere in una zona disagiata di un Paese povero: «Con l'associazione siamo andati a Rovenskaya, nella regione di Gomel, a vedere il contesto in cui in cui vive la bambina e direi che l'impatto è stato molto positivo. Inoltre avevamo piacere che i suoi genitori ci conoscessero e sapessero dove la figlia viene ospitata quando è in Italia. E adesso, quando la bambina non è qua, ci sentiamo con la mamma tramite WhatsApp, scambiandoci foto, immagini e auguri», spiega Patrizia, che con Walter da tre anni accoglie Safia. C'è da dire che non sempre è così facile rimanere in contatto: come hanno spiegato alcune famiglie a LetteraDonna, può capitare che nelle campagne di Ucraina e Bielorussia la connessione Internet sia assente. E che, dunque, ci si debba limitare a qualche sms o a scrivere lettere. Un po' quello che è successo ad Alma, del Comitato Accoglienza Bambini di Chernobyl di Cerro Maggiore: «Aleksej da un po' non rispondeva, allora l'anno scorso ad agosto sono andata a cercarlo nel ristorante dove fa il cuoco. È stato emozionante ritrovarci e sapere che ha scelto questa carriera osservando mio marito cucinare tutti gli anni che è venuto a casa nostra». Con il marito, appunto, a partire dal 1996 ha ospitato otto bambini, provenienti dalla regione di Černihiv, nel Nord dell'Ucraina: Andrej (oggi 34 anni), Liuba (29), Aleksej (21), Vika (21), Svetlana (18), Aleksandr (13), Danil (12) e Polina (8). Quando gli chiediamo se c'è qualche episodio che le è rimasto impresso in tanti anni di accoglienza, Alma va indietro nel tempo. «Ricordo che all'inizio i ragazzi erano stupiti perchè li facevamo scendere dagli alberi: quello che per noi è pericoloso, per loro è normale. Oppure mi viene in mente la meraviglia dei gemelli Ivan e Vassilli, ospiti di un'altra famiglia, davanti allo sciacquone del Wc». Perché nei villaggi sperduti dell'ex Urss non solo manca Internet, ma pure l'acqua corrente. Un altro problema riguardante questi bambini, sottolinea Alma, è la salute: «Non so se i miei ragazzi sarebbero arrivati dove sono e in salute se non fossero venuti in Italia a disintossicarsi. E ho dei dubbi sul fatto che mangino bene e non solo patate, quando sono in Ucraina»...

(Lettera43)

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