Brasile, la rivincita dei quasi estinti, i Panarà riconquistano la riserva...
Gli “indios giganti” erano rimasti in 76 al tempo della dittatura. Oggi hanno vinto la causa contro il governo e ricreato i loro villaggi.
Gli indios Aka Panarà del Brasile sono oggi più di 600. Grazie all’Istituto socio-ambientale brasiliano e a un gruppo di avvocati, hanno vinto la causa contro lo Stato che gli aveva preso la terra, e per il danno li ha risarciti di un indennizzo di 300 mila euro
Emiliano Guanella
San Paolo
Non tutte le storie di indigeni hanno un finale tragico e la vicenda degli Aka Panarà brasiliani è una di queste. Gli «indios giganti» come sono stati chiamati per molto tempo, anche se oggi la loro altezza media non supera il metro e settanta, festeggiano 20 anni dal ritorno nelle loro terre originali e sono considerati un esempio da seguire, in un Paese che in genere si occupa poco e male dei suoi popoli indigeni. Originari della regione del fiume Irirì, nel Mato Grosso, i Panarà sono stati cacciati dalle loro terre durante la costruzione negli anni Settanta della famigerata BR163, la strada amazzonica voluta dai militari per integrare il Brasile da Nord a Sud, sventrando la maggiore foresta del Pianeta. Lunga più 3.600 km, quasi tre volte la distanza fra Torino e Reggio Calabria, è stato uno scempio ambientale che ha provocato una vera catastrofe: l’arrivo dell’uomo bianco ha sviluppato epidemie, che hanno decimato gli indigeni privi di anticorpi.
In diverse tribù, si sono moltiplicati i suicidi e ci sono state diverse stragi contro gli indios ribelli, ma la dittatura metteva tutto a tacere in nome del «progresso nazionale». Nel 1977, i Panarà furono «invitati» a lasciare la regione per installarsi nel parco indigeno del Xingu, assieme ad altre decine di tribù in esodo. Per vent’anni hanno vagato alla ricerca di condizioni ambientali simili a quelle da dove venivano, cambiando per ben sette volte la loro base. «Cercavamo i nostri frutti e i nostri alberi – racconta Suakié Panarà, una delle superstiti -, ma non li trovavamo. La foresta non era buona, la terra non serviva a nulla, eravamo destinati a scomparire».
La loro storia è stata raccolta dall’Isa, l’Istituto socio-ambientale brasiliano, che da anni lotta in difesa dei popoli amazzonici, e pubblicata sulla piattaforma comunicativa «Believe Earth». Da una popolazione originaria di 700 persone erano rimasti una settantina, con poche speranze per il futuro. A metà dagli Anni Novanta, la svolta. Appoggiati dall’Isa e da un gruppo di avvocati, la loro voce è arrivata a Brasilia, hanno vinto una causa contro lo Stato, che è stato obbligato a farli tornare da dove erano stati cacciati e a pagare un indennizzo di quasi 300.000 euro, un record per l’epoca. Aka Panarà, leader della comunità, ha cominciato a sorvolare assieme ai tecnici del governo il fiume Irirì alla ricerca del luogo adatto per ricominciare.
Nel 1997 è cominciato il ritorno a casa con il primo villaggio, Nasepotiti, con 178 abitanti. Oggi i Panarà sono cinquecento, sparsi in cinque villaggi in un’area di quasi mezzo milione di ettari di terra dalle caratteristiche simili a quelle che avevano lasciato. Coltivano mais, patate dolci, piantano alberi da frutta, hanno i loro animali, hanno creato dei laboratori che confezionano prodotti d’artigianato da vendere attraverso una loro cooperativa, ed hanno sviluppato un sistema di semina pianificata e un catalogo per organizzare le piante e le coltivazioni nella loro regione. «Tornando a casa – spiega Aka Paranà – la nostra vita è completamente cambiata. Abbiamo ripreso le nostre attività e ci siamo riconciliati con la natura che ci appartiene; sono nati molti bambini, i nostri giovani rimangono nei villaggi».
La loro, oggi, è una storia felice, che rappresenta però un’eccezione per gli indigeni brasiliani, schiacciati dall’avanzata dell’agro-business. Se trent’anni fa la deforestazione era provocata dall’industria del legno, oggi è l’agricoltura estensiva di soia che ruba spazio alla foresta.
Nel 2017 il presidente Temer ha avallato una decisione della giustizia federale, che permette agli indios di reclamare esclusivamente le terre in loro possesso nel 1988, anno di proclamazione della nuova Costituzione. La fine della demarcazione delle terre indigene, che per legge devono essere tutelate, ha spianato la strada per nuove frontiere agricole e per l’allevamento. Gli interessi di questi due settori sono enormi, a iniziare dal ministro dell’Agricoltura Blairo Maggi, uno dei più grandi produttori di soia del Paese, quasi tutta esportata sui mercati asiatici. Mentre i Panarà festeggiano i 20 anni della loro rinascita, la «nuova conquista» non lascia molto spazio ormai alla resistenza indigena...
(La Stampa Mondo)
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