Il boss mafioso: un immigrato sono 45 euro che camminano...


Giuseppe Quaranta, pentito di Cosa Nostra agrigentina, ha raccontato agli inquirenti come la mafia tesse ancora alleanze sul business dei migranti.


Onofrio Dispenza

Ogni volta che vedeva un “negro” diceva che erano 45 euro che camminavano”. Frase in bocca ad un boss dell'Agrigento, quel Calogerino Giambrone considerato il capo della famiglia mafiosa di Cammarata. Linguaggio e pensieri già incontrati scorrendo le intercettazioni di "Roma capitale". Questa volta non siamo a Roma, ma in Sicilia."A raccontare l’interesse della mafia per l’affaire immigrazione è Giuseppe Quaranta, un nuovo collaboratore di giustizia. Da giorni sta parlando con i magistrati della Dda di Palermo ed è minuzioso nel disegnare il quadro di interessi che accompagna l’accoglienza dei migranti.
Al centro del racconto, alcune cooperative. Business ed estorsioni. Sul business dei migranti, la mafia tesse anche alleanze, famiglie mafiose della Sicilia occidentale e famiglie che guardano all'asse Messina-Catania-Siracusa. “Ho conosciuto Tony Maranto, capo di San Mauro Castelverde - racconta Quaranta - L’ho incontrato tre volte. Anche lui voleva creare centri di accoglienza per extracomunitari. Mi disse che era a vicino a Bagarella, tramite il padre”. Contatti anche con Salvatore Seminara, della famiglia di Caltagirone. Con lui si parlava di “andare a comprare armi in Belgio", per attrezzarsi ai conflitti sorti per i traffici di droga.
Giuseppe Qiuaranta si è pentito alla fine di gennaio. Sono bastati sette giorni dall'arresto per convincerlo a collaborare. Arrestato nel blitz dei carabinieri che aveva fermato affari e misfatti di quasi sessanta mafiosi dell'Agrigentino. Giuseppe Quaranta parla da una località protetta dove è stato spostato nottetempo con la famiglia. “Ho saputo che mi volevano uccidere perché ho tagliato i ponti”, ha detto ai magistrati della Dda di Palermo. “Cosa nostra è come un vortice che ti fa bello e poi ti risucchia”, ha aggiunto Quaranta, con una frase che è destinata a fare testo. Perchè si è deciso a parlare? "Per rimorso; il rimorso di avere rovinato la mia famiglia”.
Nel passato di Giuseppe Quaranta, prima di entrare nel "vortice", una vita da camionista, alla guida di autocarri per trasporto merci. Per una ditta di Porto Empedocle. Fatica breve, interrotta dalla cooptazione al fianco di Francesco Fragapane, il capo del grande mandamento “Montagna” che comprende i paesi montani dell’Agrigentino. Il primo compito affidato all'ex camionista, la cura della latitanza di Maurizio Di Gati. Aveva l'incarico di portargli cibo in un casolare delle campagne di Naro. Di Gati allora era latitante, sarebbe diventato un preziosissimo collaboratore.
Tra il 2010 e il 2014 Giuseppe Quaranta nel 2010 e per quattro anni è il capomafia di Favara. La sua iniziazione, con la classica "pungiuta: un santino, l'immagine di Sant'Antonio da Padova e le sue dita insanguinate che si uniscono a quelle di Francesco Fragapane, l'uomo che lo introduce tra le fila della mafia.
Tempi lontani, ora dal suo rifugio Giuseppe Quaranta fa nomi, riconosce volti, disegna dinamiche e gerarchie della Cosa nostra agrigentina. Un fiume in piena, un racconto prezioso perchè aggiornato, non legato a tempi sui quali la magistratura ha già lavorato. Tutto inedito nelle parole dell'ex camionista diventato capomafia nel paese, Favara, che secondo una tradizione e secondo alcuni storici è stata la culla della Cosa nostra siciliana.
Parlando delle estorsioni, spunta il nome della famiglia Cuffaro, quella dell'ex presidente della Regione Siciliana: “Uno che pagava - racconta - era il distributore di benzina che c'è all’entrata di Raffadali. Se non sbaglio, proprietà di Cuffaro, che versava 6 mila euro divisi per le festività natalizie e pasquali”. In effetti, quel che dice il collaboratore ha un riscontro. All’entrata del paese alle porte di Agrigento ci sono tre stazioni di servizio, e due sono di proprietà della famiglia dello zio dell’ex governatore. Pagava anche una famosa pasticceria di Raffadali che ha un punto vendita anche a San Leone, il lido di Agrigento, “Le Cuspidi”. Anche in questo caso, le cosche avevano la bontà di rateizzare il "pizzo", una parte a Natale, l'altra a Pasqua. I titolari de "Le Cuspidi" pagavano infatti - secondo il racconto del nuovo collaboratore -  cinquemila euro tra Natale e Pasqua”. Non solo estorsioni, le mani di Cosa nostra naturalmente si fiondavano sugli appalti e sulla miriade di varianti che sempre - come è (mal)costume - accompagnano gli appalti.
Chi non pagava rischiava d'essere ammazzato. Tutto a verbale. Tra le tante pagine riempite dai magistrati, omissis sui nomi di politici ed amministratori. Il racconto va oltre i fatti e i nomi emersi con l'operazione di gennaio che ha cominciato ad aprire uno squarcio su sindaci a disposizione della famiglie mafiose e sul ruolo che le cosche avevano e continuano ad avere sulle elezioni.
Dal racconto di Quaranta, la geografia politica di Cosa nostra nell'Agrigentino. Quando parla del boss Calogerino Giambrone, il collaboratore aggiunge un elemento che passa immediatamente all'attenzione dei magistrati palermitani: " Giambrone ha una ditta di movimento terra ed ha lavorato pure alla metropolitana di Palermo”...

(Globalist)

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