Che fine faranno ora gli ex combattenti dell’Isis catturati in guerra?...
Nessuno li vuole, né come prigionieri né come profughi. Dove andranno ora i combattenti isis catturati in guerra? L'analisi di Giampiero Gramaglia sul fenomeno degli ex miliziani prigionieri degli eserciti rivali.
di Giampiero Gramaglia
Sconfitti, ma non ‘neutralizzati’ – uccisi o catturati -, migliaia di miliziani jihadisti, fra cui centinaia di foreign fighters, cercano una nuova causa al cui servizio mettersi o provano, in queste settimane, a trovare una via di casa clandestina, per chiudere la parentesi di terrore della loro vita o per portare in mezzo a noi la loro guerra.
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Intelligence e servizi di sicurezza sono allertati: mesi or sono, l’ipotesi che i terroristi sbarcassero in Europa sui barconi dei migranti era assurda; oggi – ammette il ministro dell’Interno Marco Minniti – è concreta.
Nessuno li vuole, i miliziani del sedicente Stato islamico: iracheni e siriani sopravvissuti e sottrattisi alla cattura possono essersi, in larga parte, ‘mimetizzati’ fra le popolazioni locali, di cui, del resto, erano spesso un’espressione – molti, però, si sono trasferiti altrove per continuare a condurre la loro lotta; i ‘foreign fighters’, invece, facilmente riconoscibili, devono per forza trovare approdo altrove.
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Della loro sorte o, almeno, della sorte di quelli già catturati, hanno parlato, nei giorni scorsi, i ministri degli Esteri, a Kuwait City, e della difesa, a Roma, della Coalizione anti–Isis a guida Usa, riuniti a consulto per cercare di dare un senso al conflitto che prosegue in Siria, dove i protagonisti non possono più nascondere dietro il paravento del comune nemico, il sedicente Stato islamico, le loro priorità: russi e iraniani pro – Assad; americani e alleati anti; turchi contro curdi.
A Roma, Mattis ha anche posto agli alleati anche la delicata questione della sorte dei foreign fighter catturati in Siria e in Iraq: gli Stati Uniti premono sugli alleati perché i miliziani siano processati nei Paesi d’origine.
Un problema divenuto più urgente dopo la cattura di due britannici del famigerato gruppo dei ‘Beatles’, che torturava e decapitava ostaggi occidentali: gli Usa non li vogliono a Guantanamo, la Gran Bretagna non ha intenzione di rimpatriarli.
Molti miliziani – meno ‘foreign fighters’ – si sono spostati nello Yemen, dov’è in atto un conflitto inter-arabo ‘sciiti contro sunniti’, in un contesto di alleanze tribali e internazionali molto frastagliato; oppure in Afghanistan da dove, del resto, molti venivano o dove avevano già combattuto un’altra jihad, di cui sono ora tornati a essere protagonisti.
C’è probabilmente un nesso tra l’anticipo di almeno due mesi e la recrudescenza della tradizionale ‘offensiva di primavera’ talebana – e non solo – in Afghanistan e la diaspora dall’Iraq prima e dalla Siria poi degli uomini del Califfo in rotta.
Una recentissima statistica delle Nazioni Unite, che denuncia l’uccisione o il ferimento – nel 2017 e solo in Afghanistan – di oltre 10mila civili (una cifra spaventosa, in un Paese giunto al 17esimo anno di una guerra mai vinta e mai persa), attribuisce il 42 per cento delle vittime non combattenti ai talebani e il 10 per cento ai miliziani dello Stato Islamico della provincia di Khorasan (Isil-Kp), che potrebbero avere recentemente ricevuto ‘rinforzi’ da Iraq e Siria.
Detto per inciso, i dati dell’Onu indicano che forze regolari afghane e loro alleati occidentali sono responsabili di quasi la metà dei ‘danni collaterali’ del conflitto lo scorso anno.
Ma forse è l’Africa, e in particolare il Sahel, la terra promessa di miliziani e ‘foreign fighters’. Scrive su AffaInternazionali.it Eloisa Gallinaro: “La nuova Santa Alleanza jihadista del Sahel contro i governi dell’area e i loro alleati occidentali […] è nebulosa quanto le sabbie del deserto che ricoprono i porosi confini della fascia che va dalla Mauritania al Sudan.
Ma ha un obiettivo chiaro: il nemico da battere è la forza congiunta del G5 Sahel (JF-G5S) lanciata da Malì, Niger, Ciad, Burkina Faso e Mauritania, dopo l’approvazione il 21 giugno del Consiglio di Sicurezza dell’Onu”.
Il 13 gennaio, c’è stato l’annuncio formale di un fronte comune tra formazioni qaediste e gruppi vicini all’Isis – il sedicente Stato islamico – nell’area sahelo-sahariana: un fronte comune con cui dovranno presto confrontarsi anche i militari italiani che stanno per essere dislocati in Niger.
I jihadisti del Sahel “si sono dati la mano” – recita un loro comunicato – contro la forza congiunta del G5 per “combattere i miscredenti” che hanno il quartier generale a Sevarè, in Mali, e i centri di comando in Mauritania e Niger, ha detto all’Afp il portavoce di Adnan Abou Walid Sahraoui, capo dello ‘Stato islamico del Grande Sahara’ (Isgs), “eterogenea alleanza – scrive la Gallinaro – di radicali islamici di varia provenienza che può rendere ancora più difficile l’operazione G5″.
L’Isgs è poco conosciuto, ma ha già rivendicato attacchi a militari francesi e americani.
Per la Gallinaro, è “difficile valutare le voci di scissioni, reclutamenti e giuramenti di fedeltà fra le varie anime della galassia jihadista nella regione sahelo-sahariana, ‘integrata’ anche da Boko Haram, che ha allargato il suo raggio d’azione ben oltre il confine della Nigeria.
Ma non ci sono dubbi sulla sua pericolosità, anche alla luce delle ripetute segnalazioni dei servizi di intelligence occidentali in merito alle convergenze tattiche di alcune formazioni islamiche radicali”.
Le alleanze per la Guerra Santa nel deserto africano si giocano tra al Qaida e l’Isis, un alveo in cui si muovono l’Isgs, che lo Stato islamico considera il suo battaglione in Mali, e anche Ansar Dine, che guida il Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani, organizzazione terrorista salafita nata dalla fusione di alcuni gruppi legati ad al Qaeda.
La ‘legione straniera’ dei ‘foreign fighters’ che non possono o non vogliono ‘tornare a casa’ ha solo l’imbarazzo della scelta...
(The Post Internazionale)
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