La casa della morte della Cia...







L’Oscurità: così la chiamavano i suoi prigionieri. Si tratta di una prigione segreta della Cia a Kabul, in Afghanistan. La struttura è stata aperta nel settembre del 2002, giusto un mese per trasformare una fabbrica di mattoni in una casa delle torture. Venti celle, tutte singole. In sedici di queste i prigionieri erano incatenati al muro, nelle altre erano costretti a stare in piedi, legati a una sbarra.
L’umanità resta fuori da questi cubicoli dell’orrore, in cui le persone vengono private del sonno, lasciate svestite in posizioni che stressano il corpo. Denutrite, nude e bagnate dall’acqua fredda per poi essere lasciate in balia delle temperature glaciali dell’inverno. Accanto a loro un secchio per i bisogni e, se non c’era quello, dei pannolini. Stereo ad alto volume per non farle dormire, e la notte che rimane notte anche di giorno.
Sono le camerette della “privazione sensoriale” in cui tutto si perde nel buio. Anche la vita. Come è successo aGul Rahman, un prigioniero afghano che è morto dopo essere stato catturato 22 giorni prima.  Dei documenti ufficiali dimostrano, però, che se Rahman non fosse stato sottoposto ad alcuni particolari interrogatori sarebbe ancora vivo.
James Mitchell e John Jessen sono i due psicologi che misero a punto le “tecniche di interrogatorio avanzate” a Salt Pit, questo il vero nome della prigione. Jessen durante i suoi quindici giorni di permanenza ha interrogato Rahman sei volte.  E cinque giorni dopo che se n’è andato, Rahman è morto per ipotermia. L’uomo era stato stato incatenato al pavimento, lasciato nudo dalla vita in giù, con una temperatura di circa due gradi. Ma “l’atmosfera era molto buona“, ha spiegato lo psicologo durante una dichiarazione qualche mese più tardi. “Sporca – ha aggiunto – ma sicura”.
Nella struttura la Cia utilizzava metodi inumani che anche il governo statunitense ha riconosciuto, ma che Jessen ha sempre difeso sostenendo che intendessero “battere la resistenza del prigioniero senza includere torture fisiche, e in accordo con la Convenzione di Ginevra”.
Insieme a Gul Rahman, in quella prigione segreta in Afghanistan, c’erano anche Suleiman Abdullah Salim e Mohamed Ahmed Ben Soud: loro due, sopravvissuti al carcere e alle torture, hanno fatto causa ai due psicologi, insieme ai parenti di Rahman, per vedersi riconosciuto il diritto a essere risarciti finanziariamente per quanto subito.
Secondo quanto riporta il Guardian in un’inchiesta approfondita, il 28 luglio scorso, il giudice statunitense Justin Lowe Quackenbush ha negato il rito abbreviato e chiesto agli avvocati dei due psicologi di trovare un accordo prima dell’inizio del processo. Ad agosto i due sopravvissuti hanno ottenuto un risarcimento per le torture subite in seguito a un accordo extragiudiziale contro Jessen e Mitchell. I due psicologi hanno così schivato il processo in un tribunale americano, evitando di creare scalpore sul caso. Ma il risarcimento rimane comunque una prova importante di quanto accadeva nel sito oscuro della Cia.
Alcune registrazioni, recuperate per poter essere utilizzate nel caso dell’avvio del processo, fanno luce sulle tecniche degli “interrogatori avanzati”.
Il prigioniero Abu Zubaydah, per esempio, è stato sottoposto alla doccia gelata – waterboarded – almeno 83 volte. Il metodo consiste nell’immobilizzare i piedi dell’individuo più in alto della testa, mentre gli viene versata acqua gelida sul viso. In altri passaggi emerge che, inoltre, i prigionieri venivano messi per diverse ore in alcune “scatole” – dei minuscoli spazi claustrofobici – in modo da poter essere destabilizzati ulteriormente prima dell’interrogatorio. A intervalli regolari poi, e per circa otto ore,  avveniva l’alternanza. I prigionieri venivano rispostati in spazi più larghi per essere torturati con il walling – ovvero sbattuti contro un muro dal quale continua a scendere acqua gelida – e poi rimessi nelle “scatole”. Il tutto al ritmo della voce dell’addetto all’interrogatorio che continuava a ripetere: “Sai quello che devi fare se vuoi che questo finisca”, in modo da convincerli a parlare.
Le torture di Salt Pit sono state provate per la prima volta il mese scorso, dopo ben più di 10 anni, grazie all’accordo raggiunto dalle due parti. Nel documento, però, viene specificato che gli psicologi Jessen e Mitchell non erano a conoscenza diretta delle torture subite dai pazienti e per questo non possono esserne considerati responsabili. Come non lo sarebbero, dunque, nemmeno per la morte di Rahman. 
Molti degli agenti della Cia che hanno lavorato nel black site segreto in Afghanistan sono stati in seguito assunti dal team dei due psicologi che, grazie al loro metodo di “interrogatorio avanzato”, hanno continuato a fatturare milioni di dollari negli anni seguenti...
(Gli Occhi della Guerra)

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