Clima peggio di guerre e fame, profughi ambientali e follia Trump...




Nel mondo si scappa più per il clima che per guerre e fame.
Secondo il rapporto di Greenpeace Germania, ogni anno nel mondo 21,5 milioni di persone devono abbandonare il loro paese a causa di eventi naturali catastrofici o traumatici cambiamenti climatici quali tempeste, alluvioni, siccità. Un numero praticamente doppio rispetto a chi fugge da guerre o violenze. Ma a pochi giorni dalla Giornata Onu del Rifugiato istituita dall’Onu però i ‘rifugiati ambientali’ sfuggiti alle analisi e alla cronaca.


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L’ambiente offeso, ferito, reso nemico, peggio di guerre o fame. 21,5 milioni di persone devono abbandonare il loro paese a causa di eventi naturali catastrofici o traumatici cambiamenti climatici quali tempeste, alluvioni, siccità. Un numero praticamente doppio rispetto a chi fugge da guerre o violenze.
«Eventi meteorologici estremi sempre più frequenti, costringono milioni di persone nei Paesi più poveri ad abbandonare le proprie case in cerca di sicurezza», denuncia Alessandro Giannì, direttore delle campagne di Greenpeace Italia.
Un problema rimosso nella coscienza occidentale. Un atteggiamento che si riflette nelle stesse definizioni che descrivono questa umanità in fuga.
Rifugiato o profugo ambientale
Nel 1985 è stato coniato il termine di “rifugiato o profugo ambientale”, persone costretta a lasciare l’habitat abituale, «temporaneamente o per sempre, a causa di una significativa crisi o spostata in via definitiva da significativi sviluppi economici o dal trattamento e dallo stoccaggio di scarti tossici, mettendo così a repentaglio la loro esistenza e influenzando gravemente la qualità delle loro vite».
Diversa l’interpretazione che dall’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, l’Oim, che parla di “migrante ambientale” cioè persone o gruppi che per «Pressanti ragioni di un cambiamento improvviso o graduale che influisce negativamente sulle loro vite o sulle loro condizioni di vita, sono costretti a lasciare le loro dimore abituali o scelgono di farlo, temporaneamente o per sempre, e che si spostano sia all’interno del loro paese che oltre confine».
Solo distinzione semantica?
No. Infatti, dalle diverse interpretazioni discende anche il trattamento riservato dalla comunità internazionale. Ad esempio sia i profughi che i migranti ambientali finiscono fuori dalla tutela e gli interventi di protezione internazionale. Si parla di diritto di asilo solo per chi costretto a fuggire da persecuzioni anche se il concetto è poi stato esteso, integrando la Convenzione di Ginevra del 1951, estendendo la protezione anche a coloro che fuggono da una guerra.
Per l’Onu dunque il rifugiato è colui che attraversa il confine del proprio stato (per violenze, guerre, persecuzioni religiose o di razza) e non chi si sposta all’interno di un stesso paese allontanandosi da situazioni di degrado ambientale come appunto succede a migranti o profughi ambientali. Questo perché prima di abbandonare il proprio paese le vittime cercano altre strade. Si spostano spesso dalla campagna alla città o dalle regioni periferiche alla capitale. Solo in un secondo tempo tentano la via dell’estero.
Siccità o carestie meno violente della guerra?
C’è però chi contesta questa interpretazione del fenomeno come il professor Francois Gemenne, dell’Università di Paris Vincennes, che intende i “profughi ambientali” vittime di vera violenza. Per l’accademico francese infatti i cambiamenti climatici e i disastri sono la diretta conseguenza dei consumi e gli investimenti dell’Occidente, una forma di persecuzione che alimentano i flussi delle persone costrette a fuggire e che quindi avrebbero diritto ad una forma di protezione.
Un disastro ambientale è a volte causa diretta di conflitti armati. In un habitat impoverito prevalgono quei gruppi armati che si accaparrano con violenza le poche risorse rimase. Basti pensare al caso della Nigeria dove nel nord-est Boko Haram imperversa da anni, o al Ruanda.  Situazioni che provocano spostamenti di popolazioni, che danno luogo a conglomerati urbani, gli slums, poverissimi a ridosso delle grandi città. Qui nascono rivolte urbane o vere e proprie guerre. Naturale che le persone tentino di sfuggire emigrando.
Esempio Siria
La stessa martoriata Siria viene da anni di siccità che aveva provocato l’esodo interno di circa 1 milione e mezzo di contadini andati in già sovraffollate città. Occasione migliore per l’Isis non poteva esistere, per portare avanti la sua propaganda di radicalizzazione e soprattutto per mettere le mani su risorse strategiche come i pozzi di petrolio in zone rimaste praticamente disabitate. Su tutto poi influisce in modo determinante l’interesse delle potenze straniere che anch’esse giocano sull’instabilità per sfruttare le risorse, pensiamo all’Africa, a proprio vantaggio.
Eppure sembra si sia imboccata una strada senza ritorno, nonostante gli appelli sull’innalzamento delle temperature e il conseguente scioglimento dei ghiacci, è difficilissimo che si riesca a trovare un accordo per limitare i danni. La politica del nuovo presidente Usa Donald Trump segna un passaggio fondamentale in questo senso. La sua decisione di ritirarsi dagli accordi di Parigi sul clima potrebbe avere ricadute immediate gravissime, spingendo anche altri paesi a non rispettare gli impegni presi.
Segnali allarmanti
I segnali che giungono dal pianeta non sono certo rassicuranti. c Attualmente sei delle Isole Salomone sono finite sott’acqua nell’ultimo anno, e per l’Onu il 15% delle isole del Pacifico spariranno con un ulteriore innalzamento di un solo metro del livello degli oceani. Ci si sta preparando al peggio e lo si evince da notizie che non trovano spazio sui grandi media: le isole Kiribati hanno comperato un piccolo terreno nelle Fiji per ospitare almeno 100mila cittadini, quando la loro terra non esisterà più.
Le Maldive prevedono l’istituzione di un fondo sovrano per acquistare appezzamenti in Sri Lanka o in India; l’Indonesia si è offerta di “affittare” alcune delle sue 17mila isole alle comunità costrette a lasciare il proprio paese...

(RemoContro)

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