A Tel Abbas, dove finisce il mondo e comincia la Siria...




Una giornata con i volontari di “Operazione Colomba”, uno dei terminali libanesi del sistema dei corridoi umanitari promosso dalla Comunità Giovanni XXIII

                                                      Il campo profughi di Tel Abbas (foto: Operazione Colomba)


TEL ABBAS

Sovente divisi, tanto i libanesi quanto i volontari italiani dei vari progetti di cooperazione allo sviluppo presenti nel Paese, convengono su una cosa: i corridoi umanitari realizzati dalla Comunità di Sant’Egidio e dalla Chiesa Valdese se non ci fossero bisognerebbe inventarli.  
  
Tra i sensori presenti sul territorio che rendono possibile individuare chi portare in Italia c’è sin dall’inizio “Operazione Colomba”, progetto della Comunità Giovanni XXIII di assistenza umanitaria per i profughi siriani in Libano. Raggiungerli in quella terra di povertà quasi estrema, la provincia del nord libanese dell’Aqqar, non è difficile. La strada, prima trafficatissima e incuneata tra grattacieli e pubblicità formato gigante che ti accompagnano attraverso una giungla di cemento e asfalto da Beirut fino a Tripoli, diviene sempre più povera, affollata di carretti e vecchi motori, tra case che ad ogni chilometro si riducono di un piano, fino a diventare miseri casolari dall’aria triste.  
  
Asini, mezzi di trasporto occasionali, strade mal-asfaltate, pozze improvvise, ingorghi inspiegabili, si susseguono in melanconica processione fino ad Halba, dove bisogna girare per addentrarsi nella campagna e raggiungere Tel Abbas, la collina di Abbas, dove un campo un tempo coltivato a patate segna un confine non indicato. Restano cinque chilometri per arrivare al confine con la Siria. Fino a qualche tempo fa quei cinque chilometri erano una distesa di campi profughi, poi, una mattina, di buon’ora, l’esercito li ha smantellati. Tutti. Così il campo di patate dove sono arrivato ospita il campo più vicino al confine siriano.  
  
Arrivare mi è risultato facile grazie a Caterina, la giovane volontaria che proprio quel giorno rientrava dall’Italia. Riconoscere il casolare alle cui spalle si coltivavano le patate, e dove ora si vive in attesa di un futuro che sembra non arrivare mai, non sarebbe stato semplice. Siamo arrivati a non molte ore di distanza da una morte “emblematica”. Lei, la vittima, si chiamava Amal, cioè Speranza. Aveva 4 anni, come quelli che lei, sua madre e i suoi fratelli più grandi hanno trascorso in questo misero campo fatto di assi di legno a costruire un piccolo cubo e tele di plastiche varie a coprirli fin quasi a terra. Amal è andata a giocare sottraendosi al controllo della madre, presa dai numerosi maschi, impulsivi, veementi. Ed è morta affogata nel pozzo nero che raccoglie i liquami del campo e che per caso era stato lasciato aperto.  
  
Ma chi è morto quel giorno? Amal è nata lì, poco dopo la fuga, non è registrata, come tutta la sua famiglia, non è libanese, non è siriana: Amal per il mondo non esisteva, quattro anni fa come il giorno che è morta. La recente tragedia della bimba, Speranza, morta affogata in un pozzo nero a 4 anni, non impedisce a tanti suoi coetanei di assediare chiunque arrivi, anche me e Caterina. Lei, con un arabo fluente, li ha accarezzati, poi li ha invitati in uno spiazzo dove qualcosa sembra indicare l’area dei giochi.  
  
E così ho potuto raggiungere Alberto Capannini, che da anni gestisce questo programma. Nella sua tenda all’inizio mi è parso di non respirare, lui era al telefono, e guardandomi attorno ho capito perché il caldo asfissiante improvvisamente non lo sentivo più. Preso dalla ricostruzione dentro di me di quanto dicevo al telefono. Ho dedotto infatti che da settimane si occupava di un ragazzo tredicenne, un profugo siriano, afflitto da una gravissima leucemia. La sua storia si incontra benissimo con la realtà circostante, ma fa a pugni con la realtà che deve accompagnare un malato grave del quale si cerca il trasferimento in Italia, al Gaslini, per salvargli, forse, la vita.  
  
L’accordo con la struttura ospedaliera è fatto da tempo, ma occorre un nome per il paziente. Lui ce l’ha, ovviamente, Mussab, ma è fuggito senza documenti. C’è la madre con lui, come tanti fratelli. Ma perché sono fuggiti? Per la morte del padre, torturato in un carcere siriano. È un fatto ordinario, ma di decessi per tortura non si lasciano prove, né attestati, neanche di morte. E così i motivi della fuga di Mussab e famiglia restano non certificati, come la loro identità. Non è stato facile venirne a capo, ma ci si è riusciti, fino a che non è insorto un altro problema: chi accoglierà Mussab dopo le cure, se riuscirà a sopravvivere? Il Libano? Lui non è libanese… La Siria? Per fargli fare la fine del padre?   
  
«Se tu guardi il macro invece del micro ti arrendi. Occuparsi di lui, di Mussab, è il nostro dovere. Il nostro parlare d’amore sull’orlo dell’abisso, come dice il titolo di un romanzo che mi all’inizio mi è sembrato banale, poi, arrivato qui, l’ho capito un titolo del neorealismo… Ma qui c’è un popolo intero sull’orlo dell’abisso, con noi. Ripeto: se guardi il macro, e non il micro, ti perdi, ti arrendi…». Alberto Capannini guarda in faccia i problemi, e si sottrae alla tentazione di valutare cosa fare sulla base delle dimensioni di ogni problema. Perché ogni problema che affronta durante una giornata ha un volto, incarna una storia, quasi sempre una storia incredibile. E i problemi non si alleviano, ma si aggravano.  
  
«Dal 2015 c’è una nuova legge. In questo Paese - che con i trascorsi dei campi profughi palestinesi non ha mai voluto campi profughi per i siriani, ma assorbimento privato - l’Alto Commissariato per i Rifugiati non può più registrare identificando i profughi, ma solo rilasciare un numero. Per dormire in campi così si pagano 30 dollari al mese, altre cifre per chi affitta un garage, poi per il permesso di soggiorno si dovrebbero pagare 200 dollari l’anno, per il permesso di lavoro – che esclude tutte le professioni, quindi vale in edilizia e agricoltura - 900 dollari l’anno, se si ha una sponsor libanese disposto a firmare per garanzia. In queste condizioni è difficile immaginare che i non registrati non siano tanti».  
  
E infatti rispetto al milione e duecentomila siriani registrati dall’Unhcr in Libano le presenze reali, secondo la maggior parte degli analisti e dei giornali, superano i due milioni. E i libanesi sono poco più di tre milioni, forse quattro milioni. «I corridoi umanitari hanno costituito per noi un balsamo, una sorta di manna caduta dal cielo. È l’unica arma che abbiamo per dire a tutta questa gente: non salite sui barconi!», dice Capannini. «Ce ne erano almeno due pronti a partire ogni giorni dal porto di Tripoli. Le cifre che ho sentito arrivano a 4 o 5mila dollari per raggiungere l’Europa. Lo scafista? Ho sentito dire da molti che a volte fosse anche un profugo senza denari, gli mettevano in mano il timone dicendo: “Barra dritta, per almeno otto ore…”. Ricordo come fosse ieri il giorno in cui è venuto Cesare, della Comunità di Sant’Egidio. Il senso di angoscia che mi sentivo dentro da quel giorno ha trovato un antidoto, almeno parziale, anche se il lavoro è stato lungo, otto mesi d’incontri e ricerche di soluzioni tecniche ai tanti problemi». 

Di questo, dice Caterina rientrata un momento nella tenda, «a me convince soprattutto l’idea dell’accoglienza per un arco definito di tempo. Questo sistema consente a parrocchie, individui, comunità, di progettare un’accoglienza vera, finalizzata all’inserimento sociale e lavorativo di queste persone, che poi troveranno il modo di rifarsi una vita». 
  
«In questa prospettiva – prosegue Alberto Capannini - diventa molto importante l’apertura di turni serali nelle scuole libanesi per bambini siriani. C’è da un anno. Prima nessuno studiava davvero, c’erano solo classi autogestite, campo per campo, con insegnanti scelti così, tra i rifugiati che magari questo lavoro prima della fuga. Certo, rimane il problema della scuola-bus, molto grave se consideri che non tutti possono pagarlo, ma il passo avanti è indiscutibile». 
  
La vicenda di Mussab non si era ancora conclusa: con lui dovevano partire due fratelli: uno, quello che donerà il midollo, minore anche lui, e l’unico maggiorenne. Altri dettagli, altri problemi, ma per Alberto il tempo in quelle ore si chiama «la sopravvivenza di un ragazzo di nome Mussab». Così il nostro discorso è ripreso più volte: dopo una telefonata in Ambasciata abbiamo parlato dal giorno in cui riuscirono a svuotare il campo, non rompendo così quella piccola comunità di una quarantina di famiglie, inserendo tutti nel viaggio dei corridoi umanitari. Poi del giorno in cui l’esercito sgombrò tutti i campi che da Tel Abbas arrivavano al confine siriano, facendo di quello l’ultimo campo prima dell’inferno.  
  
Dopo una conversazione con Roma, per definire l’acquisto dei biglietti aerei senza sapere con precisione quando con esattezza tutto sarebbe stato risolto con le autorità libanesi, abbiamo parlato dell’inverno, quando il termometro qui arriva a quattro gradi sotto zero, e le tende sono le stesse, e del giorno in cui i profughi di Tel Abbas e dintorni sono riusciti a far arrivare a Ginevra una proposta di pace scritta da chi è rimasto in Siria e non vuole rimare un aspirante profugo per tutta la vita. 
  
«Molti profughi hanno cominciato ad arrivare qui dal 2012, poi il flusso è aumentato, non si è mai fermato: hai idea di quanti figli possano aver avuto tutti costoro da quando sono giunti dalla Siria? Gli ospedali libanesi sono pieni di donne siriane che partoriscono, ma nessuna di queste nascite è registrata. E questo problema prima o poi esploderà! Chi sono, dove sono nati, qual è la loro nazionalità? Saranno tutti apolidi! Un popolo di apolidi, figli di profughi sovente senza registrazione e magari senza certa identità, un popolo nato all’estero e che nessuno riprenderà in patria!». Le parole dell’amico che incontro per caso fermandomi a bere una bibita mentre stavo rientrando a Beirut hanno concluso il quadro di una giornata ai confini del mondo, dove nasce un popolo-ombra, come quell’uomo che mi ha parlato di sua madre, che è voluta rimanere alle porte di Aleppo quando lui fuggì, e che adesso gli racconta dei suoi fratelli più piccoli, che cinque anni fa non poterono scappare con lui, e che oggi vivono chiusi dentro casa: non escono mai, per paura, e così campano tutti con i 40 dollari mensili che guadagna lei, la madre, che gli chiede al telefono di badare a se stesso, di non andare in pericolo.  
  
Chiudo lo sportello della macchina, sono arrivato al mio albergo. E mi accorgo che mi sto dimenticando di E., un cristiano che si vede raramente a Tel Abbas. Un suo conoscente voleva farmelo incontrare, ma ancora non rientrava e io dovevo partire per Beirut, per evitare di viaggiare di notte. È stato allora che mi si è fatto vicino e mi ha detto: «Lui ti avrebbe saputo dire meglio di me perché qui miseria, disperazione e ignoranza rendano logico il paradosso: molti libanesi, che qui sono poveri, ci guardano male, perché siamo tanti, e siamo siriani, cioè cittadini di un Paese che ha invaso il Libano per decenni. Non è un paradosso? La Siria ci caccia e noi diventiamo i suoi rappresentanti. Ma non è il solo paradosso. C’è anche chi tra i siriani guarda male lui, perché essendo un cristiano sarebbe amico del regime. Chi può dirgli che lui la voleva la rivoluzione, come, il suo amico più caro, morto per le torture subite in carcere, per non dire dove E. si nascondesse. Ma la sua morte è rimasta sepolta da milioni di altre morti, in questo abisso dove ogni paradosso diventa normale, come la presenza del tuo amico italiano, che vive qui, tra di noi, perché crede che anche noi siamo esseri umani»...

(Vatican Insider)

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