Armi chimiche, tutti le hanno, nessuno senza colpa...




Il percorso tecnico di quelle armi vigliacche che colpiscono nel mucchio e la storia. Nessuno senza colpa, ci dimostra Giovanni Punzo, e gli italiani in guerra non sono sempre stati ‘brava gente’.
Dai gas nostrani in Etiopia, a quelli Usa in Vietnam, per arrivare alla modernità di Saddam contro i curdi. Nell’inseguire i ‘cattivi’ lungo la storia, ci sono scappati i ‘buoni’.


Di Giovanni Punzo

Alla metà degli anni Ottanta, gli anni delle ultime tensioni prima della fine del bipolarismo, ambedue le superpotenze detenevano ancora nei rispettivi arsenali scorte consistenti di munizioni a carica chimica. Secondo fonti internazionali attendibili, oltre ai sistemi di lancio missilistici e ai diffusori per l’impiego da aeroplani, gli Usa custodivano almeno 750.000 granate d’artiglieria di medio calibro, mentre l’Unione Sovietica aveva a disposizione circa un quarto del proprio munizionamento pronto per l’impiego con tali armi.
Gli Stati Uniti del resto avevano usato massicciamente sostanze chimiche per disboscare ampie zone del Vietnam, soprattutto dove correva il ‘sentiero di Ho Chi Min’ allo scopo di rendere più difficoltoso il transito dei rifornimenti alla guerriglia e i sovietici, dopo l’occupazione dell’Afghanistan nel 1979, avevano saturato di agenti chimici alcune zone di frontiera per impedire il passaggio di armi destinate ai ribelli.
Nello stesso anno, nel corso del breve conflitto tra Cina e Vietnam, i belligeranti di ambo le parti fecero ricorso ad armi chimiche benché su scala ridotta.
Perfino gli etiopici, che avevano subito da parte italiana nel corso della conquista coloniale pesanti attacchi con yprite negli anni Trenta, pare abbiano impiegato sostanze simili ai nervini nella lotta contro i ribelli eritrei tra il 1980 e il 1981.
Il più noto impiego massiccio di gas ante 1989 risale comunque alla guerra tra Iran e Irak, quando si verificò l’uso di yprite e nervini ed esistono immagini fotografiche della preparazione da parte irakena di granate chimiche, anche se sembrano opera della stessa propaganda irakena mirante a terrorizzare la parte avversa.
Dopo il 1989 l’attenzione internazionale si concentrò tuttavia sullo smantellamento degli arsenali nucleari, mentre si perse di vista ̶ nonostante numerosi appelli al senso di responsabilità ̶ la spinosa questione del disarmo chimico. Sulle armi nucleari un tempo si sapeva più di quanto oggi si immagini. La conoscenza reciproca era anzi parte essenziale del meccanismo della deterrenza: al di là di scrupoli morali, l’attacco atomico era frenato dalla possibile reazione dell’avversario con gli stessi mezzi. Era la paura di subire danni peggiori che manteneva stabile ‘l’equilibrio del terrore’, ma con le armi chimiche (o batteriologiche) la questione è ben diversa.
La letalità di queste armi è nel frattempo aumentata enormemente: sebbene tutti ricordino i primi impieghi devastanti risalenti alla Grande Guerra, quasi nessuno invece sembra rendersi conto che ad Ypres o sul monte Sabotino le quantità impiegate furono tonnellate, mentre negli anni Novanta del secolo scorso pochi grammi delle nuove sostanze avrebbero potuto produrre gli stessi effetti. Con le diossine le quantità letali si misurano infatti a microgrammi.
All’aumento della letalità, seguì anche la proliferazione, soprattutto da parte di soggetti non statali: il 15 marzo 1995 l’attentato alla metropolitana di Tokio effettuato con gas nervino provocò dodici vittime, ma fece anche comprendere quanto l’impiego delle armi chimiche (o batteriologiche) da parte di gruppi terroristici potesse diventare l’incubo della sicurezza nell’era post-nucleare.
A più di vent’anni dall’episodio di Tokio altri gruppi terroristici hanno fatto ricorso ad aggressivi chimici. Le Farc (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia) detengono il discutibile primato di ben sei attacchi chimici contro installazioni militari governative: il più celebre nel settembre 2001 a San Adolfo nella provincia di Huila provocò quattro vittime all’interno della locale stazione di polizia. Questo non significa affatto che i terroristi siano gli unici ad usare oggi queste armi, perché basta ricordare Ali Hassan Abd al-Majid, cugino di Saddam, il cui eloquente soprannome era «Ali il chimico». Purtroppo, per produrre aggressivi chimici, non sembra più vero che siano necessari impianti adeguati e sebbene le difficoltà restino comunque abbastanza elevate, è ancora difficoltoso utilizzarli su larga scala senza una struttura di supporto...

(Globalist)

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