2017, caccia al popolo Rohingya in Myanmar. Silenzi complici...




Pulizia etnica anti musulmana da parte dei militari birmani. Migliaia in fuga dallo stato di Rakhine nel silenzio di Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per la Pace nel 1991.
In Myanmar, paese a maggioranza buddista che un tempo si chiamava Birmania, vivono oltre un milione di musulmani, i Rohingya. Ci vivono da lungo tempo, ma non vengono riconosciuti come cittadini e li si considera immigrati privi di diritti.



«Solo il fiume sa quanti cadaveri di Rohingya galleggiano là».
E’ la testimonianza alla CNN di un padre disperato che ha perso l’intera famiglia nella fuga precipitosa dal Myanmar al Bangladesh, per salvarsi dai militari che vogliono solo ammazzare. Come lui -precisa Lucio Tirinnanzi su Look Out– migliaia di musulmani Rohingya stanno morendo nel tentativo di scampare alla violenza delle forze armate birmane, che hanno lanciato una campagna punitiva dopo degli scontri avvenuti tra islamisti e polizia di frontiera nelle scorse settimane.
Azioni punitive con fuga di popoli e pulizia etnica nei confronti di questa etnia, con villaggi bruciati ed esecuzioni sommarie. Per i militari, l’azione sarebbe giustificata da una connessione tra gli scontri di frontiera, i Rohingya e l’attentato del luglio 2016 a Dhaka, nel vicino Bangladesh, a firma dello Stato Islamico.
La maledizione Rohingya
In Myanmar, paese a maggioranza buddista che un tempo si chiamava Birmania, vivono oltre un milione di musulmani, i Rohingya. Ci vivono da lungo tempo, ma non vengono riconosciuti come cittadini e li si considera immigrati privi di diritti. Vengono discriminati e sono oggetto di una repressione dura e indiscriminata. Certo, la Birmania è stata retta a lungo — e tuttora lo è nonostante alcune limitate riforme politiche — da un duro regime militare,
Il popolo meno voluto del mondo
I Rohingya sono una minoranza musulmana apolide che vive nello stato di Rakhine, lungo la fascia costiera del Myanmar sino al confine con il Bangladesh. Quello che un tempo era il Bengala Orientale. Oggi quest’area sarebbe un “santuario di estremismo” dove si anniderebbero anche jihadisti dello Stato Islamico. Una scusa per giustificare il pugno di ferro dei militari per allontanare questo gruppo etnico dal Paese.
«Una delle minoranze più perseguitate al mondo», così sino stati già definiti, i Rohingya sono circa un milione e duecentomila persone, su una popolazione del Myanmar di oltre 56 milioni di birmani. Una goccia nel mare, ma il Paese non li riconosce come cittadini né come uno dei 135 gruppi etnici che vivono nel Paese. Per questo è negato loro il diritto all’istruzione e alla proprietà, e la terra su cui vivono può essere loro tolta in qualsiasi momento. Secondo una legge del 1982, non possono neanche prendere la cittadinanza birmana, né fare più di due figli.
Se in Myanmar il tasso medio di povertà è al 37%, nello stato di Rakhine questa cifra sale al 78%.
La feroce giunta militare
La questione dei Rohingya è antica, ed è da sempre un bersaglio della giunta militare che per decenni si è imposta al Paese. Nonostante le recenti elezioni e la salita al potere di Aung San Suu Kyi nel novembre del 2015, Le forze armate continuano a considerare questa minoranza come un cancro da estirpare. La leader birmana della dissidenza non violenta -oggi Ministro degli Affari Esteri delle Birmania- viene accusata ora di complicità con il nazionalismo islamofobo a danno dei Rohingya.
Il silancio nella difesa dei diritti umani in Myanmar sia scomparsa di fronte alla realpolitik e non valga per i Rohingya. I militari, infatti, anche se sconfitti alle prime elezioni libere dal colpo di stato del 1962, mantengono un potere e un peso determinanti nel Paese.
Lavori forzati
Operazioni militari vere e proprie contro una popolazione disarmata e disperata già nel 1978, con oltre 200mila Rohingya costretti a fuggire. Un’azione contro gli stranieri che si erano infiltrati nel Paese illegalmente, dissero. Poi nel 1991 e 1992, quando le violazioni dei diritti umani e il lavoro forzato e non remunerato provocò nuovi disordini. Infine, tra il 2011 e il 2012 una rivolta popolare scoppiata per presunti stupri a opera di giovani musulmani fece circa duecento morti nello stato occidentale del Rakhine, costringendo decine di migliaia di Rohingya a lasciare nuovamente le loro case, e molti morirono nel tentativo di attraversare il confine via mare.
L’oggi come ieri e senza domani
Negli ultimi tre mesi, la violenza è riesplosa dopo che una serie di attacchi terroristici contro la polizia di frontiera, hanno provocato la reazione dell’esercito, che ha lanciato un’offensiva militare brutale, che sinora ha causato quasi 90 morti e costretto decine di migliaia di Rohingya a tentare la fuga in Bangladesh.
Adesso i confini nord dello stato di Rakhine sono stati chiusi ed è vietato l’accesso anche agli operatori umanitari. Come finirà questa storia, sempre Lucio Tirinnanzi, “dipenderà anche dai buoni uffici di Aung San Suu Kyi, già Medaglia d’Oro del Congresso degli Stati Uniti e Premio Nobel per la Pace nel 1991”.
Il momento di ricordarlo, noi e lei.

(RemoContro)

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