Urlare in strada a Tel Aviv: "La mia è una lezione di tolleranza e reciprocità"...
La storia di Itai Aziz, promettente ricercatore universitario ma anche 'urlatore' nelle strade della città israeliana. Nel passato un ricovero coatto, oggi le rivendicazioni verso l'attenzione alle malattie mentali
di ELIS VIETTONETEL AVIV - "Perché sto urlando in questa piazza da due ore? Per rivendicare il diritto di farlo". Non fa una piega il ragionamento di Itai Aziz, ragazzone di religione ebraica di 30 anni, dalle origini iraniane e yemenite, che vive a pochi chilometri da Tel Aviv, dove è un promettente ricercatore e insegna fisica teorica alla Bar Ilan University.
La sua vita è razionalmente divisa in due: di mattina è uno scienziato, come lui stesso ama sottolineare, il pomeriggio lo passa per strada a urlare o cantare a squarciagola, in una combinazione di musica e teatro, a seconda dell'umore.
Sono passati tre anni da quando ha iniziato a esprimersi vocalmente in pubblico per le strade e piazze di Tel Aviv, oltre a scrivere e disegnare cervellotiche miniature in israeliano e in inglese. Il passato trascorso in un ospedale psichiatrico dopo un ricovero coatto (soffre di schizofrenia e disturbo bipolare) è per lui un importante fonte di ispirazione.
Di quel periodo ha solo ricordi vissuti come incubi: "Non ero cosciente di me, imbottito di medicine non potevo reagire a nessuno stimolo", come quando un giovane rinchiuso come lui nell'istituto si tolse la vita, "proprio nel luogo dove avrebbe dovuto essere in mani sicure", procurandogli un trauma di cui ancora porta il segno. "Oggi mi sento molto meglio, ho ricominciato a vivere grazie al supporto della mia famiglia, degli amici e della mia creatività. Le performance in strada sono una forma di protesta ma anche una terapia che mi aiuta: prendo molti meno psicofarmaci".
Per strada in molti riconoscono e salutano "il ragazzo che urla". Ormai abituati a questa forma di espressione sembrano non farci troppo caso: qualcuno ridacchia, altri alzano gli occhi al cielo. Solo chi non è di qui rimane impressionato e raccoglie a sé i bambini.
Nel suo sguardo si legge un guizzo di genialità misto a molti pensieri che si rincorrono frenetici. Ma violenza e rancore non ne fanno parte. Gli agenti di polizia, nonostante le frequenti chiamate, in genere non lo fermano: sanno che è innocuo e che nessuna legge gli può impedire, negli orari in cui è consentito, di essere così rumoroso.
"So di disturbare a volte, ma anche io ad esempio sono infastidito dal traffico e nessuno mi chiede se questo mi turba: lo devo accettare e basta. La mia è una lezione di tolleranza e reciprocità". Non è semplice capire qual è esattamente l'oggetto della sua ribellione, tanti sono i piani che sovrappone mentre parla ininterrottamente per due ore.
Itai Aziz (foto: Thomas Schlijper)
Da una parte c'è la sofferenza per la discriminazione o perlomeno il pregiudizio che lo accompagna, dice lui, a causa della sua pelle olivastra, per cui qui in Israele è considerato uno spiantato della classe meno istruita. E per lui è motivo d'orgoglio il poter dimostrare di essere invece molto più preparato e brillante della maggior parte dei suoi coetanei dalla pelle chiara.
Da sempre il primo della classe, all'età di 13 anni fu invitato negli Stati Uniti, Università dell'Arkansas, a illustrare un progetto di biochimica sulle piante galleggianti che assorbono i metalli e il loro possibile utilizzo per pulire le acque inquinate che aveva sviluppato. "In quel momento ho capito che lo studio, come quasi tutto nella vita, va inteso come un gioco, una sfida contro sé stessi in cui la costanza è un premio che permette di accumulare punti, come in un videogame: la stessa attitudine che ho quando passo tutti i miei pomeriggi da 3 anni per le vie di Tel Aviv a cantare".
Per un altro verso è centrale per lui l'esigenza di spazi pubblici inclusivi in cui la malattia mentale non venga nascosta come polvere sotto il tappeto: una modo di pensare diffuso che considera socialmente accettabile tanti mali ma che tiene sempre a distanza i "matti". "Bisogna cambiare paradigma - spiega - rinchiudere le persone non può essere loro d'aiuto. I mesi in clinica sono stati i più duri nella mia vita. Da quando mi esprimo a gran voce mi sento meglio, perché non potrebbe essere una terapia su cui fare ricerca e applicarla anche ad altri?".
Due vite parallele, dunque, portate avanti con lo stesso impegno, senza che una limiti l'altra: "Il professore con cui collaboro non sa della mia doppia identità, per lui sono solo un promettente studioso che si è aggiudicato un posto nel prestigioso master che lui dirige". A volte, quando deve terminare degli scritti, come quello sulla dinamica delle particelle in due sistemi dimensionali diluiti con interazioni casuali su cui sta lavorando, gli piace cambiare aria per concentrarsi meglio. Grecia, Italia, Olanda, Polonia sono alcuni dei Paesi in cui si è rifugiato per qualche settimana. Ma nemmeno lì riesce a fare a meno della sua seconda attività: "È come un laboratorio sperimentale. Mi piace vedere come reagiscono gli abitanti e le autorità nel mondo".
Progetti per il futuro? "Sicuramente continuare a gridare-cantare, poi ho in cantiere un libro di graphic novel dove racconto la mia storia ma anche le motivazioni che mi spingono e le denunce di cui mi faccio portavoce". Il sole sta tramontando sulla splendida spiaggia di Tel Aviv e per parlare con noi Itai oggi non ha gridato. "Mi rifarò domani", saluta, mentre pedala via...(R.it Esteri)
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