Migranti, ancora tanti piccoli Aylan: tre storie...
La foto del bambino morto il 2 settembre 2015 su una barca diretta dalla Turchia all'isola Greca di Kos aveva fatto il giro del mondo, innescando una solidarietà senza precedenti verso chi cercava rifugio in Europa. A un anno di distanza, tanti bimbi continuano a morire nel silenzio, come testimoniano le tragedie vissute da Abdelaziz, Mamdouh, Yassir e dalle loro famiglie
di GIACOMO ZANDONINIFebbraio 2016, relitti di barche e giubbotti usati da migranti a Mithimna, in Grecia (afp)
Quando ha visto le barche, buttate sulla sabbia nella semi-oscurità, era ormai troppo tardi. "Una volta che sei nelle loro mani, non puoi più tirarti indietro, se no ti uccidono sul posto". Così Abdelaziz ha fatto salire la moglie, che portava in grembo il terzo figlio, e i piccoli Tameem e Tasneem, di cinque e due anni, per poi spingersi sullo scafo, facendosi posto a fatica fra la famiglia di Mamdouh, suo zio, di poco più vecchio, e altri sei nuclei, tutti siriani. Poche ore dopo, in un'aurora ancora buia, tutti i 28 che erano a bordo combattevano con le onde, tentando in ogni modo di aggrapparsi all'imbarcazione, rovesciata e trascinata dalla corrente. Sette di loro non sono sopravvissuti a quello che per Mamdouh è stato un "tempo infinito", interrotto solo dall'arrivo di due battelli. Tre bambini, tre donne e un uomo. Un bilancio esiguo, nella contabilità dei viaggi della speranza via mare, ma un segno, l'ennesimo, di come, a un anno dalla morte di Aylan Kurdi - fotografato sulle spiagge turche il 2 settembre 2015 - il destino di minori e adulti in cerca di sicurezza sia sempre sul punto di spezzarsi, irrevocabilmente.
Da Raqqa alla Libia. È l'inizio di agosto quando Abdelaziz, nato a Raqqa, quartier generale dello Stato Islamico dal 2014, affida i risparmi di quattro anni in Libia a un uomo, "uno che si presentava bene, che ci ha fatto vedere le foto delle barche", spiega agitando il cellulare, dove appare un gozzo verniciato di fresco. Appena lascia Tripoli, nel profilo Facebook scrive "travelling to Sabratah". Il post successivo è di due settimane dopo, e mostra la famiglia allargata e altri compagni di viaggio che indossano orgogliosamente il giubbotto di salvataggio, in una stanza spoglia. "Ci hanno chiuso in quella casa per due settimane, finché una sera ci hanno messo su un camion per poi scaricarci sulla spiaggia".
Nelle mani del trafficante. Il tempo di uno sguardo e le garanzie dell'agente - un libico che, ironia della sorte, si fa chiamare proprio Abdelaziz - si rivelano parole vuote. "Ci aveva promesso barche nuove, un cellulare con cento dollari di ricarica e il telefono satellitare... Ma non c'era nulla di tutto ciò". Anche il pilota, "non era il marinaio esperto che ci aspettavamo, ma un ragazzo egiziano a cui, cinque minuti prima di partire, avevano spiegato come manovrare il motore". Unica istruzione, "seguire una stella, che puntava a nord". Altre imbarcazioni partono dalla spiaggia, improvvisamente affollata. "Abbiamo dato quasi 600 euro a persona al trafficante, e sappiamo che, dai viaggi di quella notte, ne ha ricavati più di 100mila".
Il naufragio. Il barchino si rovescia a poche miglia dalla costa, già pieno d'acqua. Minuti, o forse ore, di ricordi confusi, cacciati in fondo alla memoria. Il primo a avvistare il gruppo, quando già fa giorno, è un pescatore libico, "che sembrava più un pirata, e ha rubato borse e zaini a cui ci aggrappavamo". L'uomo avverte però un'altra barca, poco lontana. È lo yacht Astral, della Ong spagnola Proactiva Open Arms, che raccoglie in breve tutti i naufraghi. A mancare all'appello sono la piccola Tasneem e Jihan, la moglie di Abdelaziz. Arrivano senza vita, invece, Hadia, la moglie di Mamdouh, e tutti i famigliari di Yassir, un altro viaggiatore. La moglie e due bambini, di uno e due anni, non resistono al freddo pungente dell'acqua.
Riconoscere i cadaveri. Sopravvissuti e cadaveri, trasbordati sulla nave umanitaria del MOAS, che ha tratto in salvo oltre 25mila persone in due anni di attività, toccano terra la mattina del 19 agosto. Sulle banchine di Trapani, Abdelaziz, Mamdouh e Yassir sono assistiti dal team di "primo soccorso psicologico" di Medici Senza Frontiere. "Abbiamo accolto questi uomini, traumatizzati e esausti", spiega Andrea Ciocca, coordinatore in locodell'organizzazione umanitaria, "e li abbiamo accompagnati nel momento più duro, quello del riconoscimento dei cadaveri, avvenuto già nel porto". A ospitare i vivi è l'hotspot di Trapani, da cui non potranno uscire per una settimana, fino al giorno del funerale. La moglie e i figli di Yassir troveranno sepoltura ad Alcamo, mentre, per piangere Hadia, Mamdouh dovrà raggiungere il paese di Petrosino, dove è sepolto anche il giovane egiziano che conduceva la barca. Solo un cugino, volato dall'Olanda per aiutarlo, convincerà Abdelaziz che anche per i suoi famigliari - la moglie Jihan, incinta al quinto mese, e la piccola Tasneem, di due anni - non c'è più speranza.
Nella periferia romana, in attesa. A accogliere Abdelaziz e Mamdouh, trasferiti da Trapani pochi giorni fa, è una struttura della periferia romana, in mezzo a centri commerciali, capannoni dismessi e prati incolti. Seduti ai tavolini di un caffè, osservano operai e commesse in pausa. "A Raqqa eravamo entrambi operai edili specializzati, io ho lavorato in tutto il Medio Oriente - racconta Mamdouh aggrappandosi a una normalità offuscata nella memoria - ma la guerra di Assad, l'arrivo di Da'esh, e poi la Libia, ci hanno costretto a fuggire". Abdelaziz chiude gli occhi mentre lo zio spiega, ritmando le parole, come "nessun dottore potrà curarci, perché l'unica soluzione sarebbe di strapparci il cuore dal petto e sostituirlo con uno nuovo". A attendere i due uomini, come il compagno di viaggio Yassir, rimasto in una struttura siciliana, è il programma europeo di "relocation", che dovrebbe portarli in Olanda e Germania, dove hanno parenti. Nell'attesa, spesso lunga mesi, condividono con una dozzina di persone una stanza spoglia, con letti senza lenzuola, a pochi minuti dal Raccordo...(Repubblica.it)
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