Libia e traffico di essere umani. Donne e cristiani, le prime vittime...
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Amnesty International ha diffuso, il primo luglio, una nuova serie (qui, la precedente) di testimonianze – raccolte nei centri d’assistenza di Puglia e Sicilia – di violenza sessuale, uccisioni, torture e persecuzione religiosa nei confronti di migranti e rifugiati costretti ad affidarsi ai trafficanti nel percorso verso la Libia e all’interno di questo paese.
Attualmente oltre 264.000 migranti e rifugiati, secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazioni, si trovano in Libia, per lo più provenienti dall’Africa sub-sahariana, in fuga da guerre, persecuzione e povertà estrema. Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, circa 37.500 sono i rifugiati e i richiedenti asilo registrati, la metà dei quali siriani.
Grazie all’assenza di legge e alla violenza che – nonostante la formazione di un governo di accordo nazionale sponsorizzato dalle Nazioni Unite – continuano ad affliggere la Libia, lungo la rotta sud-nord, dal deserto ai porti del Mediterraneo, si è imposto un redditizio traffico di esseri umani.
La maggior parte delle persone con cui Amnesty International ha parlato ha denunciato di essere stata vittima di tratta di esseri umani. I migranti e i rifugiati sono presi dai trafficanti appena entrati in Libia o vengono venduti ad altre bande criminali. Parecchi di loro hanno riferito di pestaggi, stupri, torture e sfruttamento. Alcuni hanno assistito a uccisioni da parte dei trasportatori, altri hanno visto compagni di viaggio morire a causa delle malattie o dei maltrattamenti subiti.
Molti dei migranti e dei rifugiati incontrati da Amnesty International hanno raccontato di essere stati fatti prigionieri a scopo di riscatto. Erano tenuti in condizioni spesso squallide, privati di cibo e acqua, picchiati, minacciati e insultati costantemente.
I rapitori picchiavano sistematicamente i loro prigionieri e chi non poteva pagare il riscatto era costretto a lavorare gratis fino ad arrivare a quella somma.
Saleh, 20 anni, eritreo, è entrato in Libia nell’ottobre 2015. I trafficanti lo hanno immediatamente portato in un hangar nella zona di Bani Walid, dove è rimasto 10 giorni. In quel periodo, ha visto un uomo che non poteva pagare il riscatto essere sottoposto a scariche elettriche mentre era in una vasca d’acqua.
Saleh è riuscito a scappare ma è finito in un altro campo gestito dai trafficanti dalle parti di Sabrata, vicino al mare.
“Non sapevamo cosa sarebbe successo, se non che ci avrebbero tenuti lì fino a quando le nostre famiglie non avessero mandato i soldi. Nel frattempo ci costringevano a lavorare gratis nelle case, pulire e altre cose del genere. Non avevamo abbastanza cibo e l’acqua che ci davano da bere era salata. Molti di noi avevano malattie alla pelle. Gli uomini fumavano hashish e ci picchiavano coi calci delle pistole o con qualsiasi oggetto che avessero a portata di mano: pezzi di metallo, pietre. Era gente priva di cuore”.
Dall’insieme delle testimonianze raccolte da Amnesty International, arriva la conferma che maggiormente a rischio di violenza sono le donne e le persone di fede cristiana.
Gli stupri sono talmente comuni che, come nell’attraversamento del Messico, molte donne assumono contraccettivi prima di mettersi in viaggio, onde evitare di rimanere incinte. La violenza è commessa dai trasportatori, dai trafficanti o dai gruppi armati, sia durante il viaggio che nella fase di attesa dell’imbarco verso l’Europa, quando le donne sono trattenute in abitazioni private o in fabbriche abbandonate lungo la costa.
Un’eritrea di 22 anni ha assistito alla violenza sessuale contro altre donne, una delle quali è stata sottoposta a uno stupro di gruppo poiché accusata erroneamente di non aver pagato il dovuto al trasportatore:
“La sua famiglia non aveva i soldi per pagare una seconda volta. Allora cinque uomini libici l’hanno presa da parte e l’hanno stuprata. Era notte, nessuno di noi ha potuto far niente, avevamo troppa paura”.
Ramya, un’altra eritrea di 22 anni, è stata stuprata più di una volta dai trafficanti che la tenevano prigioniera in un campo nei pressi di Ajdabya, nel nord-est della Libia, dove era entrata nel marzo 2015.
“Dopo aver bevuto alcool e fumato hashish, le guardie entravano e sceglievano le donne. Poi le portavano fuori. Loro cercavano di opporsi ma quando hai una pistola puntata alla testa, non hai altra scelta se vuoi sopravvivere. Mi hanno stuprato due o tre volte. Non volevo perdere la vita”.
Antoinette, 28 anni, proveniente dal Camerun, ha descritto i trafficanti che la tenevano prigioniera nell’aprile 2016:
“Non gliene importa nulla se sei una donna o un bambino. Ci picchiano coi bastoni, sparano in aria per metterci paura… Avevo con me un bambino, forse per quello non mi hanno stuprata, ma l’hanno fatto alle donne incinte e a quelle che viaggiavano sole”.
L’ascesa, negli ultimi anni, di potenti gruppi armati – alcuni dei quali hanno anche proclamato fedeltà al gruppo armato che si è autodenominato Stato islamico e alla relativa interpretazione delle leggi islamiche – ha aumentato i rischi nei confronti degli stranieri, soprattutto di quelli di religione cristiana. Già lo scorso anno, lo Stato islamico aveva rivendicato l’uccisione sommaria di almeno 49 richiedenti asilo copti.
Amnesty International ha parlato con persone che sono state sequestrate dallo Stato islamico per molti mesi.
Amal, 21 anni, eritrea, ha raccontato il rapimento del gruppo di 71 persone con cui viaggiava, ad opera di un gruppo ritenuto legato allo Stato islamico, nei pressi di Bengasi. Era il luglio 2015:
“Hanno chiesto al trasportatore perché stesse aiutando dei cristiani. Lui ha risposto che non sapeva che fossimo cristiani e lo hanno lasciato andare. Poi ci hanno separato, prima i cristiani da una parte e i musulmani dall’altra, poi nei due gruppi gli uomini da un lato e le donne dall’altro. Hanno preso i cristiani e ci hanno portati a Tripoli, dove siamo state tenute per nove mesi in uno scantinato, senza mai vedere la luce del sole. Eravamo 11 donne, tutte dell’Eritrea. Ci sono stati periodi in cui non ci hanno dato da mangiare per tre giorni, altri in cui ci davano un pasto al giorno: mezza fetta di pane”.
Amal ha poi descritto i tentativi di conversione forzata all’Islam.
“Quando rifiutavamo, ci picchiavano coi tubi e i bastoni, minacciavano di spararci o di sgozzarci”.
Quando alla fine le donne sono state costrette a convertirsi, hanno subito violenza sessuale. Gli uomini infatti le consideravano le loro “mogli” e le trattavano come schiave del sesso. Amal è stata stuprata da diversi uomini prima di essere assegnata a uno di questi, che ha continuato a stuprarla.
In un altro caso risalente al 2015, Adam, un etiope di 28 anni che viveva a Bengasi con la moglie, è stato tenuto sotto sequestro per sette mesi dallo Stato islamico semplicemente perché era di religione cristiana.
“Mi hanno tenuto in prigione per un mese e mezzo. Poi uno di loro si è sentito in colpa per il fatto che avevo una famiglia e mi ha aiutato a imparare a memoria il Corano in modo che mi avrebbero liberato. Hanno ucciso tante persone…”
Di fronte a questo stato di cose la comunità internazionale dovrebbe impegnarsi al massimo per assicurare in primo luogo che i rifugiati non si dirigano in Libia. Ma non finanziando governi repressivi dei paesi africani. L’Unione europea e i governi su scala mondiale dovrebbero piuttosto incrementare di gran lunga il numero dei reinsediamenti e dei visti umanitari in favore dei rifugiati più vulnerabili – tra cui certamente le donne, i minori e gli appartenenti alle minoranze religiose - che si trovano in condizioni difficili e hanno poche prospettive future nei paesi prossimi al loro in cui sono fuggiti...
(AgoraVox)
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