La guerra c’è: Aleppo e Mosul battaglie finali, 1 milione di profughi...




La guerra non va in vacanza. Anzi. Allarme della Croce Rossa a Mosul in Iraq: «Un milione di persone fuggiranno dalla battaglia finale tra Stato Islamico e Baghdad». Mentre la Siria non viene risparmiata da nessuno: 2 civili uccisi in raid del governo su una clinica di Save The Children, 24 giustiziati dall’Isis e 28 massacrati dalle bombe Usa, elenca il Manifesto. A ognuno i suoi cadaveri.



Era il giugno cocente di due anni fa quando i media di tutto il mondo ci mostrarono le immagini di centinaia di migliaia di persone che scappavano da Mosul, seconda città irachena, occupata in 24 ore dallo Stato Islamico.
10, 11 giugno 2014, la resa dell’esercito iracheno di invenzione statunitense.
Un bel racconto su il Manifesto ci ricorda di quelle prime bandiere che preannunciavano due anni di barbarie.
Allora si fuggiva come si poteva: «File interminabili di auto dirette nel Kurdistan iracheno; famiglie a piedi con addosso solo i vestiti e qualche borsa con gli effetti personali più cari; anziani e bambini sulla schiena di un asino. Alla fine se ne contarono mezzo milione, mezzo milione di sfollati interni nell’arco di due giorni».
Per un altrettanto torrido agosto, due anni dopo, i nuovo profughi, i sopravvissuti all’occupazione Isis presi nel mezzo della battaglia finale tra il califfato e il governo di Baghdad, rischiano di essere molti di più. Un milione, denuncia la Croce rossa.
La Mosul di oggi raccontata dalla stessa Croce rossa internazionale. Una città che alcuni di noi, di Remocontro, conoscevamo bene. Mosul non è più la ricca città che era nel 2014. Ha perso il suo mercato e la sua industria, i suoi popoli con le loro diverse confessioni religiose. Di cristiani, ben tutelati ai tempi di Saddam, neppure più l’ombra.
Ora, a due anni di distanza, altro esodo in vista.
«Un milione di iracheni lascerà Mosul con l’intensificarsi dello scontro tra esercito governativo e islamisti», avverte la Croce Rossa, in vista dell’annunciata battaglia finale.
Una situazione già al collasso con oltre 3 milioni gli sfollati interni, e altri 10 che nelle zone dove sopravvivono hanno necessità di assistenza.
Popoli in fuga e porte sbarrate ovunque, a partire dalla stesso Iraq e Stati confinanti. Baghdad da mesi non fa più entrare sunniti di Anbar e Ninawa, città bersaglio, per il timore che tra loro si nascondano islamisti e per evitare uno stravolgimento della settaria bilancia demografica.
Problema analogo nel Kurdistan iracheno dove il rapporto tra popolazione curda e popolazione araba non è solo una questione di lingua o cultura. Dallo scorso anno, dopo aver accolto oltre due milioni di persone tra sfollati iracheni e profughi siriani, passare i confini controllati dai peshmerga è diventata un’impresa.
La cronaca, sempre de il Manifesto, spiega tutto è regolato dall’ «iqama». «Un permesso di residenza rilasciato dalle autorità di Erbil concesso sulla base di garanzie di uno sponsor kurdo. Solo con l’iqama puoi lavorare, muoverti liberamente, accedere ai servizi. Più facile per altri kurdi e i cristiani, grazie alla chiesa locale. Molto più difficile per degli arabi, peggio se sunniti.
Intanto a Baghdad ed Erbil si organizza la controffensiva.
Nessuno vuole mancare l’appuntamento che definirà il futuro dell’Iraq.
Da Baghdad, parte governativa, l’inclusione delle milizie sciite e l’esclusione dei peshmerga.
Il premier al-Abadi ha ordinato l’ingresso delle milizie sciite nell’esercito regolare, in modo di controllare meglio le influenze iraniane e assieme gestire in modo più efficace la battaglia finale. Tutto da verificare come le potenti milizie sciite Badr, ascoltino gli ordini del premier.
Sul versante kurdo, pasticcio ancora più complesso. Baghdad non ha gradito l’incontro che il presidente kurdo Barzani ha avuto negli Stati Uniti, e i 415 milioni di dollari in aiuti militari a Washington in vista proprio di Mosul. Il ministro degli Esteri iracheno Obeidi lo ha detto apertamente: «Non faremo avvicinare i peshmerga a Mosul».
Ma tra il dire e il fare…

Dinamiche simili se non peggiori in Siria, dove la frantumazione politica gestita da formazioni è la regola. La Siria, da cinque anni campi di battaglia, continua a contare i morti delle contrapposte nefandezze od errori.
Ieri, mentre lo Stato Islamico giustiziava 24 persone nel villaggio settentrionale di Buyir, strappato ai kurdi di Rojava, nella provincia di Idlib raid aerei (forse russi o governativi) colpivano l’ennesimo ospedale: la denuncia arriva da Save the Children, organizzazione responsabile della clinica di maternità bombardata nel villaggio di Kafer Takhareem.
La clinica era l’unica di questo tipo nell’arco di 100 chilometri e garantiva assistenza a 1.300 persone al mese, tra donne e neonati.
Una settimana fa erano state cinque le cliniche danneggiate da un bombardamento di Damasco.
Ma si muore anche di coalizione: giovedì notte raid Usa hanno ucciso, secondo fonti locali, 28 civili nella cittadina di al-Ghandour, vicino Manbij...
(RemoContro)

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