Attività di cooperazione, un lavoro difficile e rischioso: sono tanti i Giovanni Lo Porto nel mondo...




Operatore umanitario della Mezzaluna Rossa nella provincia di Idlib, in Siria, tra Foua e Kefraya, porta aiuti umanitari e assistenza medica ai civili. 11 gennaio 2016 REUTERS/Ammar Abdullah


Un anno fa, il 15 gennaio 2015, Giovanni Lo Porto, cooperante italiano che lavorava per la ong di Bologna Gvc sulle montagne del Pakistan, moriva durante un'operazione antiterrorismo statunitense portata a termine da alcuni droni, al confine tra Afghanistan e Pakistan. Lo Porto era stato rapito da Al Qaeda nel gennaio del 2012 e da allora era in corso una lunghissima trattativa tra i servizi italiani e gli islamisti pachistani e afghani per riportare a casa il connazionale.
Il cooperante italiano si trovava in compagnia di altri ostaggi, come l'esperto di sviluppo statunitense Warren Weinstein, prigioniero dal 2011: l'obiettivo del raid americano era Ahmed Farouq, un cittadino statunitense ai vertici dell'organizzazione islamista fondata da Bin Laden. La notizia fu resa nota solo diversi mesi più tardi, il 23 aprile, direttamente dal presidente americano Barack Obama: "Non sapevamo che all'interno del compound ci fossero anche i due ostaggi. Ho parlato con la moglie di Warren e con il premier Matteo Renzi. Come marito e padre posso solo immaginare l'angoscia e il dolore che le famiglie stanno vivendo oggi […] Il lavoro di Giovanni l'ha portato in tutto il mondo, ad Haiti e in Pakistan. Era pieno di passione. Il suo lavoro riflette l'impegno dell'Italia, che è un alleato molto importante. Siamo legati all'Italia dagli stessi valori” aveva detto un commosso Obama assumendosi la piena responsabilità di quel bombardamento e di quelle morti. Da poco la famiglia Lo Porto aveva ricevuto rassicurazioni dalla Farnesina circa l'imminente rilascio di Giovanni.
Solo nel 2014 i cooperanti (o meglio “aid workers”) attaccati lontano da casa sono stati 329, i morti 120 in 27 paesi. Lo scorso anno gli attacchi sono stati 213.
La cooperazione internazionale è spesso oggetto, in molte zone del mondo, della cieca violenza di miliziani, bande armate, gruppi radicali, regimi repressivi e criminali incalliti. La domanda di operatori umanitari nelle zone di conflitto cresce di anno in anno e con essa anche il numero di persone che si assumono il rischio di partire per attività di cooperazione nelle zone più pericolose del mondo: un lavoro tanto rischioso quanto importante e ricco di stimoli. La necessità di operatori umanitari ha tuttavia aumentato il pericolo per gli stessi, spesso vittime di attacchi violenti (che non sempre causano vittime): la presenza di forze militari internazionali di solito non aumenta il rischio, cosa che invece succede in contesti in cui si svolgono missioni di peacekeeping.
Il settore degli aiuti umanitari è cresciuto molto negli ultimi due decenni: nel 2014 valeva 25 miliardi di dollari in tutto il mondo e negli ultimi 15 anni il numero di cooperanti che viaggiano in zone di pericolo è triplicato. Questa buona volontà ha tuttavia avuto conseguenze pericolose sulle persone: il 2013 è stato l'anno più violento contro gli operatori umanitari e le agenzie internazionali, con 461 episodi. Il trend negativo ha interrotto la sua fase ascendente solo nel 2014 ma ad oggi non è ancora chiaro quali siano gli elementi che possano aiutare nella prevenzione dagli attacchi. C'è chi sostiene che i legami tra gli stessi operatori e le forze di pace possano rappresentare un elemento critico, così come i contatti tra gli operatori e i governi locali, ma ad oggi gli unici elementi che dimostrano come sia possibile ridurre gli attacchi è il mantenere, localmente, un basso profilo e assumere misure di sicurezza personali che ai più potrebbero sembrare delle vere e proprie manie. Come ad esempio girare con il walkie-talkie sempre acceso, rispettare il coprifuoco, muoversi sempre in compagnia.
Oggi le ONG garantiscono livelli di sicurezza decisamente più alti rispetto a 15 anni fa, ma secondo le statistiche la maggior parte degli attacchi contro operatori umanitari si svolgono quando questi sono in movimento: le vittime sono più vulnerabili durante i viaggi. E se i morti l'anno scorso sono stati “solo” 213 è incalcolabile il numero dei rapimenti (spesso per ottenere il pagamento del riscatto nell'immediato), secondo un'indagine di Nation Newsplex in numero maggiore rispetto agli omicidi.
Secondo l'Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari gli operatori umanitari in tutto il mondo sono circa 300.000 persone: la probabilità che questi vengano attaccati è di 1 su 1.000, cosa che rende queste persone le più vulnerabili al mondo. Stando alleinformazioni raccolte dall’Agenzia Fides nell’anno 2015 sono stati uccisi nel mondo 22 operatori pastorali (sacerdoti, suore, laici).
Un rapporto di Humanitarian Outcomes del 2013, l'anno nero per gli operatori umanitari, descrive piuttosto bene come il mondo sia un posto sempre più pericoloso per chi fa questo mestiere: l'uso di esplosivi era raddoppiato dal 2012 al 2013 e nel corso dell'anno ci furono 18 bombardamenti aerei ed attacchi a colpi di mortaio, quattro attentati suicidi, otto violenze stradali ed otto attacchi con esplosivi improvvisati, sei morti per causa delle mine antiuomo.
“Le agenzie umanitarie, finanziati e spronati dai governi, hanno spinto sempre più i propri operatori verso le prime linee dei conflitti, dove c'è più bisogno di assistenza e le esigenze sono maggiori e continue, ma questo per il loro personale è un rischio ulteriore […] Occorre trovare soluzioni durature, le attività umanitarie stanno sempre più riempiendo il vuoto lasciato dall'inazione politica e c'è chi paga tutto questo con la vita” ha detto Sara Pantuliano, direttore del Development Institute (ODI) alGuardian.
Lo stress dovuto a lavorare in circostanze difficili e i rischi continui che gli operatori umanitari e i cooperanti devono affrontare spesso è una concausa di una distrazione fatale o del mancato rispetto di un protocollo. In un contesto dove l'imparzialità di tali operatori non viene rispettato, come può essere in questo momento in Iraq o in Pakistan, o anche in Yemen, dove la guerra civile non guarda in faccia a nessuno ed acceca gli occhi degli uomini armati con il sangue delle loro stesse vittime, il lavoro degli operatori umanitari è tanto essenziale quanto ancora più pericoloso del solito.
Sono 108 milioni le persone che, in tutto il mondo, fanno affidamento sul lavoro dei cooperanti: cifre che fanno rabbrividire e che mostrano la cruda realtà, quella nella quale dove i governi e gli eserciti non possono nulla, sono le associazioni ad essere l'unica luce di speranza per chi ha bisogno.
“Il ministero mi ha detto nel dicembre 2014 che Giovanni stava tornando a casa, che i negoziati erano stati positivi e che si era trovato un accordo” ha detto Daniele Lo Porto, fratello di Giovanni, alGuardian. “Mia madre non fa altro che piangere, tutta la famiglia è in lutto. […] Se nessuno ti parla, se l'Italia non ti dice nulla, se ti lasciano da solo, che cosa fai? Pensi a te stesso, ti fai la tua idea. Siamo stati abbandonati” ha detto il giovane Lo Porto, che lavora di notte in un supermercato di Pistoia. Per Valeria Solesin, volontaria ad Emergency, i funerali di Stato a Venezia sono stati trasmessi sulla televisione nazionale. Il Presidente della Repubblica ha partecipato e Matteo Renzi ha firmato il libro dei ricordi. Per Giovanni Lo Porto la vergogna della Farnesina ha fatto calare un velo pietoso: il ministro Gentiloni ha dato la notizia in un'aula vuota e triste, nessun funzionario del governo (americani o italiani) hanno partecipato ai funerali e portare i resti del giovane da Roma (dove atterrarono i resti per volontà del governo italiano) a Palermo fu “un incubo burocratico”.

È ovvio che la morte di Lo Porto e la morte di Solesin hanno lo stesso identico valore. Quello che non ha alcun valore è l'atteggiamento del governo italiano, che di fronte alle proprie vergogne cerca di spazzare la polvere sotto al tappeto sperando nel silenzio. Un atteggiamento istituzionalizzato, indipendente dal colore politico dell'esecutivo e del titolare della Farnesina. Fino a quando non si sarà capaci di affrontare questo, il guardarsi allo specchio e il sapersi assumere le proprie responsabilità, la cooperazione nel mondo sarà uno dei mestieri più rischiosi, bistrattati e dimenticati. Fino al prossimo Giovanni Lo Porto...
(International Business Times)

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