A. SAUDITA. Lavoratrici ugandesi maltrattate, Kampala avvia i rimpatri...




Kampala blocca il flusso di migranti nel regno wahhabita, rompendo un accordo firmato lo scorso luglio con le autorità saudite. Troppi gli abusi denunciati da parte dei lavoratori, in grande maggioranza donne, subiti nelle famiglie presso cui prestano servizio.



di Giorgia Grifoni
Roma, 29 gennaio 2016, Nena News - E’ cominciato il rimpatrio ufficiale delle collaboratrici domestiche in Uganda dall’Arabia Saudita. Sette di loro, senza soldi per potersi pagare un volo di ritorno, sono state rimandate a Kampala tre giorni fa grazie all’intervento dell’ambasciata ugandese. Erano bloccate, assieme ad altre 17 donne, in un rifugio gestito dal governo nella capitale Riyadh, un ostello che le autorità saudite adibiscono a centro di accoglienza per i lavoratori stranieri fuggiti dai loro padroni e per trattenere temporaneamente chi viene trovato sul territorio senza un regolare visto. Lo riferisce l’emittente BBC.
Le sette donne fanno parte di quel gruppo di circa 500 collaboratrici domestiche partite per Riyadh in seguito alla firma, lo scorso luglio, di un accordo tra i due paesi volto a impiegare in Arabia Saudita le neolaureate ugandesi: giovani votate, se lasciate in patria, alla disoccupazione. Giovani che, prima dell’accordo, raggiungevano in massa i lidi sauditi senza alcun tipo di regolamentazione né controllo. “Le nostre aspettative – ha detto Wilson Muruli Mukasa, ministro ugandese del lavoro, genere e politiche sociali – erano che con la firma dell’accordo, il traffico di persone in Arabia Saudita si sarebbe fermato”. Ma la scorsa settimana, complici le numerose lamentele di maltrattamenti e, soprattutto, un documento audio circolato sui social network in cui si denunciano torture e imprigionamenti, Kampala ha deciso di rompere l’accordo.
“Il governo – ha dichiarato Mukasa venerdì scorso – ha continuato a ricevere informazioni sulla nostra gente sottoposta a trattamenti disumani nelle mani dei datori di lavoro in Arabia Saudita”. “Il divieto – ha aggiunto – rimarrà in vigore fino a quando le condizioni non saranno ritenute più consone”. Se le neolaureate inviate a Riyadh fossero davvero solo 500, come sostengono le cifre ufficiali, per l’ambasciata ugandese in terra saudita sarebbe più facile monitorare le loro sorti. Invece, come riferisce la Reuters, il flusso di lavoratori migranti sarebbe molto più alto. Un ufficiale dell’immigrazione all’aeroporto di Entebbe avrebbe infatti dichiarato che le partenze per Riyadh si attestano su una media di 100 al giorno. Migliaia di donne destinate in buona parte ad andare incontro a un’esperienza traumatica.
Le ultime cronache parlano di una colf filippina di 32 anni, alla quale la propria padrona saudita aveva tirato dell’acqua bollente perché “era lenta nel portare il caffè”. Ustionata su gran parte del corpo, era stata portata in ospedale solo molte ore dopo, e nemmeno dalla padrona, ma da un suo parente. O di un’altra collaboratrice domestica di origine filippina che aveva documentato in un video, poi postato su facebook, le terribili condizioni nelle quali viveva. Era poi stata “liberata” dalla casa grazie a un’associazione per i diritti umani e rimpatriata a Manila. A quel punto il governo filippino ha bloccato i flussi di lavoratori verso l’Arabia Saudita, prendendo esempio da Indonesia ed Etiopia che in passato avevano preso una decisione simile.
Sono centinaia i casi di abusi sui lavoratori stranieri censiti ogni anno in Arabia Saudita. Human Right’s Watch, che da anni denuncia le condizioni di simil-schiavitù in cui sono costretti milioni di immigrati nelle ricche monarchie del Golfo, fatica a formulare dei dati precisi. Le più colpite sono ovviamente le donne, quasi sempre collaboratrici domestiche nelle facoltose famiglie saudite: gli abusi variano dal superlavoro, alla reclusione forzata con confisca del passaporto, passando per il mancato pagamento dei salari, la privazione del cibo e l’abuso psicologico, fisico e sessuale. Per i datori di lavoro non c’è quasi mai persecuzione giuridica e i lavoratori che hanno tentato di denunciare gli abusi dei loro padroni a volte si sono trovati ad affrontare contro-accuse di furto, prostituzione, “magia nera” o “stregoneria”.
A monte sta la famigerata Kafala, il sistema di sponsorizzazione per cui un lavoratore immigrato contatta, tramite un’agenzia del suo paese, un datore disposto ad assumerlo nel Golfo e a fargli avere il visto di lavoro. Le leggi che regolano questo tipo di contratti sono molto rigide, e non permettono all’impiegato di lasciare il proprio datore fino alla fine del contratto, né tantomeno di muoversi liberamente e tornare a casa se insoddisfatti o abusati. Spesso il passaporto viene confiscato all’arrivo a Riyadh e non è raro che lo stipendio venga trattenuto.
Ora, come spiega Human Rights Watch nel suo ultimo report sulle condizioni lavorative nel paese, le autorità hanno emesso direttive che introducono o alzano le multe per i datori di lavoro che violano le normative sul lavoro; tra esse, il divieto di trattenere i passaporti dei lavoratori migranti, l’obbligo di pagare gli stipendi in tempo e quello di fornire una copia del contratto anche al dipendente. Briciole, per una situazione da incubo per centinaia di migliaia di persone...
(Nena News)

Commenti

AIUTIAMO I BAMBINI DELLA SCUOLA DI AL HIKMA

Post più popolari

facebook