Viaggio nella macchina propagandistica dello Stato islamico Prima Parte...
Questo reportage fa parte di una rassegna dedicata all’ascesa del gruppo militante dello Stato Islamico, alle sue implicazioni per il Medio Oriente e ai tentativi intrapresi dal governo statunitense e dagli altri governi per contrastarlo.
di Greg Miller e Souad Mekhennet – Washington Post
(Traduzione di Romana Rubeo)
Rabat (Marocco), 27 novembre 2015, Nena News – Gli incarichi di lavoro arrivano su veline di carta, su cui sono riportati la bandiera nera dello Stato Islamico, il sigillo dell’emiro responsabile della comunicazione e il luogo scelto per le riprese.
“Sul foglio è indicato solo la location, mai i dettagli,” racconta Abu Hajer al-Maghribi, che è stato per quasi un anno cameraman per lo Stato Islamico. Il più delle volte, il lavoro consisteva nel riprendere le preghiere all’interno della moschea, o militanti impegnati in esercitazioni militari. Ma prima o poi era inevitabile: un giorno, la velina riporta le coordinate scelte per effettuare un vero e proprio bagno di sangue.
Abu Hajer, secondo le indicazioni ricevute, guida per due ore a sud ovest della città siriana di Raqqa, capitale auto-proclamata del califfato o Stato Islamico. Una volta arrivato, scopre di essere uno dei 10 cameraman inviati a riprendere le ultime ore di vita di oltre 160 soldati siriani catturati nel 2014.
“Continuavo a impugnare la mia Canon,” ha ricordato, mentre i soldati venivano completamente denudati e marciavano nel deserto; poi, sono stati costretti a inginocchiarsi e sono stati trucidati a colpi di fucile automatico.
Le immagini saranno viste in tutto il mondo, grazie a un video pubblicato online dallo Stato Islamico e diffuso sui social network per essere poi ripreso dai principali media mainstream, da Al Jazeera e altri network.
Abu Hajer, attualmente detenuto in un carcere marocchino, è tra i membri e disertori che ora vivono in altri Paesi e che hanno fornito racconti dettagliati al Washington Post sulla più imponente macchina di propaganda mai messa in piedi da un’organizzazione terroristica.
Dalle loro testimonianze, emerge una sorta di reality show medievale. Le troupe sono onnipresenti sul territorio del califfato, pronte a fornire una versione distorta degli eventi che documentano: il racconto dei combattimenti e delle decapitazioni pubbliche sono studiati a tavolino, seguono un copione così preciso che talvolta i militanti e i boia ripetono più volte le scene e leggono persino le battute su un gobbo.
Le telecamere, i computer e l’attrezzatura arrivano a scadenza regolare dalla Turchia. Vengono consegnati a una società di media gestita da stranieri, tra cui almeno un americano, secondo gli intervistati, che si sono formati nel settore della produzione audiovisiva lavorando per canali di notizie o società tecnologiche.
Gli esperti mediatici sono considerati “emiri”, alla stregua delle loro controparti militari. Sono coinvolti direttamente nelle decisioni relative alla strategia e al territorio. Dirigono centinaia di grafici, produttori e montatori che vanno a formare una classe professionale privilegiata, che può vantare un certo status sociale, stipendi e sistemazioni abitative non paragonabili a quelli dei militanti comuni.
“È un vero e proprio esercito di professionisti della comunicazione,” sostiene Abu Abdullah al-Maghribi, un altro disertore con ruoli di sicurezza all’interno dello Stato Islamico, che però prevedevano continui contatti con il settore mediatico.
“Gli esperti di comunicazione sono più importanti dei militari,” sostiene. “il loro stipendio mensile è più alto e hanno macchine migliori, perché hanno il potere di incoraggiare coloro che combattono e di reclutare nuovi membri dello Stato Islamico.”
Un potere che travalica sempre di più i confini del califfato. Gli attacchi di Parigi sono stati perpetrati da militanti che appartengono a cellule formate estemporaneamente da seguaci dell’ISIS, individui sparsi in decine di Paesi diversi, che intrattengono rapporti con il gruppo quasi esclusivamente in rete.
Abdelhamid Abaaoud, presunto ideatore degli attacchi, ucciso nel corso di un raid in Francia, era apparso in più occasioni nei materiali di reclutamento dello Stato Islamico. La serie di video e dichiarazioni rilasciati subito dopo evidenziano non solo la volontà di terrorizzare il nemico, ma anche quella di controllare un pubblico sempre più vasto, su scala globale.
Gli Stati Uniti e i loro alleati non hanno ancora trovato il modo di arginare questa valanga mediatica. Le iniziative da parte dei governi di contrastare la messaggistica del califfato non hanno sortito gli effetti sperati. Finora, i sostenitori virtuali dello Stato Islamico sono sempre riusciti a contrastare i tentativi di blocco su Twitter e Facebook.
Dopo aver perso la battaglia sulla rete, gli Stati Uniti hanno deciso di usare il pugno di ferro. Gli ultimi raid aerei statunitensi hanno ucciso diversi esperti di comunicazione dell’ISIS, tra cui Junaid Hussain, esperto informatico britannico. Il Direttore dell’FBI James B. Comey ha recentemente dichiarato che anche le unità che si occupano di propaganda saranno considerate obiettivi militari.
“Sono convinto che le azioni intraprese dai nostri colleghi militari per ridurre il numero dei tweeter legati all’ISIS saranno efficaci,” ha dichiarato Comey il mese scorso a un evento a Washington. “Ma dobbiamo controllare quello spazio”.
Questo articolo nasce da decine di interviste a disertori e membri dello Stato Islamico, a ufficiali della sicurezza e esperti di contro-terrorismo in sei Paesi e tre continenti diversi. I racconti più significativi sono stati quelli di sette disertori attualmente detenuti in Marocco (o rilasciati di recente) per accuse di terrorismo formulate dopo il loro ritorno dalla Siria. Tutti hanno parlato a condizione di essere identificati solo con i nomi acquisiti che usavano in Siria.
Le interviste sono state condotte con il placet del governo marocchino nel padiglione amministrativo di un carcere nelle vicinanze della capitale. I detenuti hanno parlato volontariamente, dopo essere stati contattati dalle autorità marocchine da parte del Washington Post. Altri prigionieri si sono rifiutati. La maggior parte delle interviste sono state rilasciate alla presenza di ufficiali di sicurezza, circostanza che forse ha spinto i testimoni ad attenuare le loro responsabilità all’interno dello Stato Islamico, ma che non sembra aver influenzato la loro sincerità nella descrizione della macchina propagandistica.
Il cameraman
Abu Hajer, marocchino dalla voce calda con la barba rada e il fisico asciutto, sostiene di essere stato operativo nei settori della comunicazione jihadista per oltre un decennio prima di entrare in Siria nel 2013. Ha iniziato partecipando ai forum islamisti dopo l’invasione statunitense dell’Iraq nel 2003, per diventare poi amministratore del popolare sito Shamukh, ruolo che gli ha conferito l’autorità di ammettere nuovi membri e controllare il materiale postato dagli altri militanti.
Queste credenziali gli hanno spianato la strada per ricoprire ruoli di rilievo all’interno dello Stato Islamico, gruppo che ha iniziato la sua attività come affiliato di al-Qaeda in Iraq e che si è poi separato da quella rete terroristica per divergenze ideologiche due anni fa. L’organizzazione ha un elaborato sistema di valutazione e addestramento delle reclute. Abu Hajer racconta che, subito dopo il suo ingresso in Siria, è stato formato per entrare a far parte della squadra di comunicazione dello Stato Islamico. Per due mesi, ha ricevuto un addestramento militare di base, poi è stato ammesso ad un programma speciale di formazione della durata di un mese.
Il corso era incentrato su “come effettuare le riprese, il montaggio, come assumere il giusto tono di voce nelle interviste”. Alla fine dell’addestramento, ha ricevuto una telecamera Canon, uno smartphone Samsung Galaxy e il primo incarico all’interno dell’unità mediatica di Raqqa.
Il trentacinquenne Abu Hajer proviene da una zona molto povera del Marocco. Ora che lui è in carcere, la moglie e i figli sono tornati nell’accampamento in cui vivevano prima della partenza, un villaggio di baracche in lamiera e compensato senza acqua corrente, accanto a un cementificio non lontano da Rabat.
In Siria, vivevano in una villa con giardino. Ad Abu Hajer era stata consegnata un’auto, una Toyota Hilux a quattro ruote motrici che gli consentiva di raggiungere anche le postazioni più lontane. Gli veniva corrisposto un salario di 700 dollari al mese, sette volte di più rispetto ai semplici combattenti, oltre al denaro per il cibo, il vestiario e le attrezzature. Era anche esentato dal pagamento delle tasse che lo Stato Islamico impone alla maggior parte dei suoi affiliati.
Presto, si era abituato a una routine che prevedeva la ricezione quotidiana di fogli contenenti le indicazioni della missione e che servivano anche da documenti di viaggio per superare i vari checkpoint all’interno dello Stato Islamico. Nella maggior parte dei casi, si trattava di lavori ordinari: doveva riprendere scene nei mercati o celebrazioni durante le festività musulmane.
Abu Hajer sostiene di aver incontrato solo un ostaggio occidentale, John Cantlie, corrispondente di guerra britannico rapito in Siria nel 2012. Cantlie è noto per i suoi reportage in stile BBC che promuovevano l’economia fiorente del califfato e il rispetto della legge islamica, mettendo in cattiva luce i governi occidentali.
Abu Hajer ricorda di averlo filmato a Mosul nel 2014, e che già allora il reporter non indossava più la tuta arancione, non era in isolamento in una cella oscurata ed era autorizzato a circolare nei mercati e nelle strade di Mosul.
“Non mi sembrava obbligato o sotto minaccia, girava liberamente,” dice Abu Hajer, dichiarazione che sembra contrastare con le più recenti informazioni sulla prigionia di Cantlie.
Un video pubblicato a gennaio mostra Cantlie in varie location di Mosul: in un caso, sta guidando una motocicletta con un militante armato seduto dietro di lui. È una delle sue ultime apparizioni, poi la serie di reportage viene interrotta senza alcuna spiegazione; non si conoscono ulteriori dettagli sulla sua sorte, sebbene gli siano attribuiti alcuni articoli pubblicati sulla rivista del califfato.
Poi Abu Hajer ha dovuto lavorare sulla scena di una carneficina sapientemente organizzata, un’esecuzione di massa inscenata davanti alle telecamere che è diventata una dei simboli dell’ISIS.
Dopo aver raggiunto il luogo concordato, lui e gli altri operatori si sono riuniti per “organizzarsi e riprendere la scena da differenti angolazioni”.
Abu Hajer sostiene di aver espresso serie obiezioni sul massacro dei soldati siriani avvenuto nel deserto vicino alla base aerea di Tabqa, ma ha ammesso che i dubbi erano relativi più al trattamento loro riservato, e al mancato rispetto della legge islamica, che non a una reale preoccupazione per la loro sorte.
Abu Hajer riprende i soldati denudati e costretti a marciare nel deserto dal finestrino della sua auto, mentre un assistente egiziano guida affiancando la fila dei condannati.
“Quando il gruppo si è fermato, sono sceso” ha continuato. “Hanno ricevuto l’ordine di inginocchiarsi. Alcuni soldati sono stati fucilati, altri decapitati. ” Nel video, tuttora reperibile online, si vedono diversi operatori che entrano ed escono di scena, mentre i militanti sparano centinaia di colpi.
“Non ero contrario all’uccisione dei soldati,” ammette Abu Hajer. “Erano militari siriani, alauiti” dice, riferendosi al gruppo religioso di cui fanno parte il Presidente siriano Bashar al-Assad e i suoi sostenitori. “Credo che meritassero di essere uccisi.”
“Non approvavo che fossero stati denudati,” comportamento che reputa un affronto verso la legge islamica.
Allo stesso modo, Abu Hajer sostiene di non aver ripreso le decapitazioni, in quanto contrario a tale pratica. Ma quando gli chiediamo se abbia preso in considerazione l’ipotesi di rifiutarsi di riprendere il massacro, risponde che avrebbe probabilmente subito la stessa sorte dei soldati.
“Non ci si può rifiutare, pur volendo.”
(Nena News)
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