Dopo l’attentato di Susa, lo stato d’emergenza in Tunisia...
Con la proclamazione dello stato d’emergenza il paese nordafricano sembra fare piccoli passi indietro al periodo che seguì alla fuga del dittatore Ben Ali.
Poteri eccezionali a polizia ed esercito. Saranno queste le conseguenze dellaproclamazione dello stato d’emergenza in Tunisia, lanciato oggi dal presidente Beji Caid Essebsi in persona, a dieci giorni circa dall’attentato di Susa, in cui 38 turisti hanno perso la vita- 30 dei quali, britannici.
Le forze di sicurezza tunisine sono state infatti a lungo criticate, anche dallo stesso governo, per non aver saputo reagire in tempo alla sparatoria avvenuta sulla spiaggia del Riu Imperial Marhaba di Port El Kantaoui e fermare la strage perpetrata da Seifeddine Rezgui, uno studente di 23 anni, che sarebbe stato addestrato in Libia probabilmente dal gruppo terroristico Ansar al-Sharia.
Per questo Essebsi ha deciso di rispondere alla sensazione di diffusa insicurezza nel paese con questo gesto, che prevede la distribuzione di 1. 400 soldati negli hotel e sulle spiagge, i luoghi turistici insomma, obiettivi prescelti dai terroristi.
Dopo l’attentato al museo del Bardo di Tunisi lo scorso 17 marzo, che ha causato la morte di 21 persone e dopo quello alla spiaggia di Susa, il paese sembra apparentemente ritornare indietro.
Lo stato d’emergenza era infatti stato revocato in Tunisia nel marzo del 2014, ma era in vigore dal gennaio del 2011, quando fu istituito dopo le rivolte che avevano portato alla fuga dell’ex presidente Zine El Abidine Ben Ali.
Insieme a Seifeddine Rezgui, sono state arrestate altre 8 persone, accusate di complicità. E le autorità, a poche ore dalla strage del Riu Imperial Marhaba, hanno ordinato la chiusura di circa 80 moschee, accusate di diffondere insegnamenti radicali.
Secondo alcuni analisti, la Tunisia si trova in un periodo di forte vulnerabilità, data sia la sua collocazione geografica, che la vede confinante con la Libia, in cui domina il caos politico e dato l’alto numero di tunisini che hanno lasciato la loro terra, per andare a combattere con l’Is in Siria e in Iraq...
(Il Journal)
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