Nord Africa: la strategia espansionistica dello Stato Islamico è un successo. Perché?...
Di Luca Lampugnani
L'aggravarsi della situazione libica in favore di una maggior espansione di gruppi e formazioni affiliate o semplicemente fedeli allo Stato Islamico è sintomatico di un successo forse insapettato della strategia messa in campo dal nucleo centrale del sedicente califfato. E se oggi la Libia appare come l'hub Nord-africano dell'IS (dall'inglese Islamic State, già ISIS o ISIL), non vanno dimenticati i rischi che corrono, in particolar modo e nella stessa regione, Egitto, Algeria, Tunisia e Marocco.
Come stimavano ad ottobre dell'anno scorso analisti ed osservatori internazionali, proprio da qui poco più di 5 mila e 500 "foreign fighters" - letteralmente "combattenti stranieri", miliziani che convinti dalla propaganda jihadista si univano al sedicente califfato - partivano alla volta della Siria e dell'Iraq, contribuendo a rafforzare le fila agli ordini di Abu Bakr al-Baghdadi. Un vero e proprio esercito che, stando ad alcuni funzionari dell'Intelligence USA sentiti dal New York Times, è arrivato a contare tra le 20 mila e le 31 mila e 500 unità.
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Il problema, che non riguarda tuttavia solo il Continente Nero, è che molti di questi "foreign fighters" hanno fatto negli scorsi mesi ritorno alle loro nazioni d'origine, esportando il modello dello Stato Islamico e facendolo attecchire ancora più in profondità tra quella babele di gruppi votati al Jihad che più o meno animano le cronache di questi giorni. In tal senso, si pensi ad esempio alla caduta libica di Sirte, solo l'ultima conquista delle formazioni del terrore fedeli sul territorio allo Stato Islamico. Oppure al gruppo Ansar al-Sharia - sia nella sua salsa tunisina che libica -, al Jund al-Khilafah algerino, o ancora all'egiziano Ansar Bait al-Maqdis, particolarmente radicato nel Sinai.
Insomma, l'influenza dello Stato Islamico - anche e forse soprattutto in Nord Africa - è in pieno fermento. Ma perché questo sta avendo un così chiaro ed innegabile successo? Tra le molte interpretazioni che possono essere avanzate per rispondere ad un fondamentale quesito come questo, tre sembrano essere le più probabili, riassunte nei seguenti punti: brand, propaganda e territorio.
Nel primo caso, la "fortuna" della strategia jihadista in Nord Africa si ascrive alla graduale perdita di potere di Al Qaeda (più mediatico che reale, probabilmente) nei confronti dello Stato Islamico. Quest'ultimo è infatti il brand del terrore più in voga al momento, e sono un'infinità i gruppi che prendono spunto o dichiarano la loro sudditanza al califfo, spesso anche lasciandosi alle spalle l'ombra dell'ormai decadente (sempre a livello di nomea, è giusto ricordarlo) Al Qaeda.
Nel secondo caso, emblematica è la brutalità diffusa capillarmente dal nucleo centrale dello Stato Islamico. I filmati e i report, le decapitazioni e le torce umane, sono nè più nè meno che un mezzo attraverso il quale veicolare almeno due messaggi: uno di paura e terrore, indirizzato all'Occidente, entità che nelle intenzioni del califfo e dei suoi adepti deve soffrire le pene dell'inferno a causa della sua infedeltà e corruzione; un altro, ed è quello che più interessa ai fini di questa analisi, di attrazione e propaganda, da esercitare principalmente su quegli individui che, dall'Africa all'Europa passando per l'Asia e le Americhe, sono già sulla strada dell'estremismo. E poco importa se la base di questa radicalizzazione ha il suo punto di partenza dall'odio, dalle condizioni sociali o da altri fattori che riguardano l'individuo. Ciò che conta è che il messaggio arrivi forte e chiaro, che lupi più o meno solitari siano pronti a colpire a Parigi come a Copenaghen, che gruppi più o meno influenti e importanti siano pronti a combattere sul terreno per conquistare fette di territorio su cui ergere il vessillo nero del califfo.
Nel terzo ed ultimo caso, "territorio" si riferisce ai luoghi dove i "franchising" dello Stato Islamico (da non confondere con il modello Qaedista: qui si tratta di gruppi che giurano fedeltà, spesso non avendo nemmeno contatti diretti con il califfato) stanno avendo più successo. Si prenda in considerazione ad esempio la già citata Libia. Qui, dopo la caduta definitiva del ra'is Gheddafi, il Paese è precipitato in unaguerra fratricida che ha coinvolto fazioni, gruppi e formazioni della più svariata natura, facendo si che nel tempo si creassero i presupposti per un vuoto di potere tale da essere fonte di grande attrazione per l'estremismo. Il risultato, va da sé, è la situazione odierna: una nazione balcanizzata, spaccata in tanti piccoli frammenti dove riesce a spadroneggiare la dottrina dell'IS.
Allo stesso modo, benché nelle giuste dimensioni e con i dovuti aggiustamenti, la situazione è potenzialmente esplosiva anche in Egitto o in Tunisia. Nel primo caso, da tenere sotto controllo è soprattutto il Sinai, dove le autorità e le istituzioni sono spesso il bersaglio di attentati e azioni jihadiste. Nel secondo, il pericolo principale è che il fragile processo di democraticizzazione avviato dopo la Primavera Araba si spezzi nel prossimo futuro, aprendo ad una crisi interna che potrebbe essere un'occasione d'oro per gli estremisti islamici - non va dimenticato che la Tunisia, stando almeno alle ultime stime, è il Paese africano da cui proviene il più alto numero di "foreign fighters" diretti in Siria e Iraq.
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(International Business Times)
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