Il fotografo di Duma...





(di Abd Doumany*, per AFP. Traduzione dall’inglese di Claudia Avolio). È un attacco aereo a svegliarmi, proprio accanto a casa mia in una zona dei sobborghi di Damasco controllata dai ribelli. Sono le 8.30 del mattino. All’inizio penso sia l’unico, ma le mie speranze svaniscono presto col rumore di un altro attacco. E poi di un altro.
Il bombardamento non si ferma fino al tramonto. I jet governativi prendono di mira ogni cosa. Complessi abitativi, moschee, scuole, perfino un ospedale. L’assalto è una vendetta per un vasto attacco dei ribelli che ha fatto dieci morti nella capitale il giorno prima. Come ho preso a fare in casi simili, mi dirigo giù all’ambulatorio improvvisato, dove assisto alle scene più orribili che si possano immaginare.
La situazione medica è spaventosa: sangue ovunque, bambini che gridano e donne che piangono. Da ciò che riesco a vedere, metà dei feriti sono donne, anche se per rispetto non possiamo fotografarle in queste condizioni.
Dopodiché, decido di arrampicarmi sul soffitto di un edificio alto, perché è l’unico modo per documentare quanto sta accadendo. È estremamente pericoloso con tutte queste bombe che mi cadono attorno.
Abbiamo vissuto molti attacchi del governo qui a Duma, nella Ghuta orientale, ma questo è stato il peggiore sin dall’inizio del conflitto quattro anni fa. Ho contato più di 35 attacchi. Sento l’Osservatorio siriano per i diritti umani dire che hanno ucciso almeno 82 persone, di cui 18 bambini.
So che queste che sto documentando sono scene terribili. Ma dietro di esse c’è anche un orrore invisibile: le immagini che non uso − quelle troppo scioccanti, di persone senza arti o senza testa − mi fanno male per notti di fila. Mi è impossibile scacciarle via dalla mente.
Per 18 mesi del conflitto sono stato costretto a restare a casa dopo essere stato ferito alla gamba dal fuoco di un cecchino. Mi addolorava il fatto che il mondo sapesse così poco di quanto terribile sia la situazione in Siria e nella mia città in particolare. E non potevo farci niente.
Una volta guarito, ho iniziato a documentare quelle che vedevo come violazioni dei diritti nella mia città. Mi sono concentrato sul fotografare i feriti perché so in prima persona come ci si sente, essendo stato ferito numerose volte.
Non ho mai documentato un conflitto in un altro Paese. Ma sono sicuro che è diverso darne conto a casa.
Documentare la sofferenza della gente lo vedo come mio dovere. Penso anche che faccia molto più male, ogni dettaglio, ogni storia, perché questa è casa mia e questa è la mia gente. Ci sono anche molte scene che non documenti per rispetto.
Ogni persona ha la sua storia. In condizioni migliori, parlo coi feriti e gli chiedo di loro. A volte ciò può aiutarli a sentirsi meglio. Ma in momenti come questo molti non sono in grado di parlare. E semplicemente non c’è tempo per parlare. (AFP, 5 febbraio 2015)
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* Abd Doumany è un fotografo freelance e un collobaratore dell’AFP basato a Duma.
(SiriaLibano)

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