Lo Stato Islamico si racconta...
L'ascesa del califfato nelle parole di un suo adepto tipo: dalle marce anti-Asad alla 'chiamata di al-Baôdådø. Anticipazione del nuovo volume di Limes "Dopo Parigi che guerra fa"
di LORENZO TROMBETTAMi chiamo Muhammad ma tutti mi conoscono come Abu Jihad al-Idlibi. Sono un combattente dello Stato Islamico. Sono siriano, della regione di Idlib, nel Nord-Ovest del paese. Racconto la mia storia mentre sono in trincea a Dayr al-Zawr, molto lontano dalla mia cittadina natale.
Siamo in centinaia su questo lato del fronte, aperto da settimane per metter le mani sull'aeroporto militare ancora controllato da quei maiali di nusayri (termine antico, oggi usato in senso dispregiativo, per indicare gli alauiti, ndr), bestemmiatori di Dio. Combatto sulla via di Dio per la difesa del califfo Abu Bakr al-Baghadi al Qarsi, discendente del Profeta e principe dei credenti, nostro condottiero in grado di riscattare tutti noi musulmani dalle ingiustizie subite dai nuovi crociati, dagli ebrei, dai miscredenti e dai traditori della fede.
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Prima di imbracciare questo fucile nella trincea di Dayr ho vissuto altre vite. Sono stato un combattente di Jabhat al-Nusra, una fazione che per circa un anno ha condotto il jihåd in nome di Dio contro i nemici dell'islam. Ma che col tempo ha deviato la via, facendosi ingannare dai falsi musulmani che vogliono metterci gli uni contro gli altri e consegnarci ai nemici della umma.
Ho aderito ad al-Nusra alla fine del 2012. Allora mi ero convinto che l'unico modo per risolvere i problemi di noi siriani fosse partecipare alla fondazione di un emirato islamico nelle terre liberate da quegli assassini schifosi dei nusayri e da tutti i collaborazionisti del regime di al-Asad. Ad al-Nusra arrivai dopo aver lasciato una brigata di rivoluzionari siriani. Sì, ci chiamavano rivoluzionari. Ma a pensarci oggi, quelli che ancora credono nella rivoluzione siriana contro al-Asad sono dei poveri ingenui. Nel peggiore dei casi, sono dei traditori dell'islam, prezzolati e meschini. Avevo imbracciato le armi e avevo aderito a un gruppo di combattenti della mia cittadina. Eravamo cugini, amici, ex compagni di scuola, alcuni di noi colleghi di lavoro. Non avevamo altra scelta che prendere le armi e difenderci. Difendere la rivoluzione, così dicevamo. Così credevamo. Ci sparavano e noi sparavamo. Lo facevano contro l'islam e noi abbiamo risposto difendendo l'islam. Riscoprendo l'islam. Ma non mi bastava. Non mi bastava difendere l'islam in mezzo a pecore che parlavano anche di "democrazia" e "società civile", tutte idee strampalate che l'Occidente insinua tra noi per rovinare le nostre società islamiche.
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Non mi bastava nemmeno lo stipendio a fine mese. La rivoluzione - quella rivoluzione - doveva farsi in fretta. Eppure, per molti, era meglio se non si cominciava proprio. Non si vive solo di slogan e manifestazioni. Prima o poi, se non ti uccidono, ti accorgi che la vita continua. E che bisogna tornare a casa e dar da mangiare ai propri figli. Sono sposato e ho tre bambini. Ho 34 anni. E prima che questa storia cominciasse gestivo un negozio di informatica. Con lo scoppio delle proteste in altre città siriane, anche noi abbiamo manifestato. Ho partecipato ai cortei di protesta assieme a molti miei amici e cugini. Scendevamo in strada senza armi. Ma le armi, anche solo un fucile da caccia, erano pronte a essere usate. Nessuno dei nostri padri ha mai dimenticato quello che gli Asad ci hanno fatto nel 1980.
Col negozio mandavo avanti la famiglia. Come manifestante per la libertà ho perso il negozio e quella piccola libertà che avevo. Quei maiali dei nusayri mi hanno arrestato due volte e torturato quasi tutte le notti della prigionia. Una volta uscito, ho imbracciato le armi. Tutti senza casa. Io col fucile sulle montagne. I miei al freddo e spesso senza cibo. Poi è arrivato un emiro di al-Nusra. Era sicuro di sé e aveva tanti soldi. Al-Nusra mi ha risollevato: mi ha dato uno stipendio vero e un alloggio per mia moglie e i miei figli, assieme ad altre famiglie di mujahiddin. Combattevo col cuore più leggero. Difendevo l'islam. O almeno così credevo. La chiamata del nostro emiro al-Baghadi, la forza di spirito e la rettitudine di tanti fratelli combattenti venuti dal Caucaso e dall'Iraq mi hanno mostrato il volto corrotto e debole di al-Nusra. Ora combatto per lo Stato Islamico e sono più rispettato di prima. Riesco a dare un presente dignitoso alla mia famiglia, al nome di mio padre e a quello di mio nonno.
Oltre il confine. Ero ancora con al-Nusra quando un anno fa abbiamo lanciato la guerra fratricida contro lo Stato Islamico. È stato allora, a metà strada tra Idlib e Aleppo, che ho capito di puntare il fucile dalla parte sbagliata. Assieme ad altri fratelli abbiamo abbandonato le nostre posizioni e ci siamo arresi allo Stato Islamico. [...]
Intanto i crociati e gli ipocriti hanno dato vita alla loro cosiddetta coalizione contro lo Stato Islamico. Si illudono di sconfiggere il nostro Stato con i bombardamenti aerei. Ma lo sanno anche loro che ci vuole ben altro per spaventare l'esercito dell'islam. E sanno anche che lo Stato Islamico è ormai una realtà incontestabile. C'è chi dice che siamo oltre ventimila combattenti. In verità, siamo più di trentamila. E continuano ad arrivare molti fratelli da ogni parte della nazione islamica e dai paesi con cui siamo in guerra. Non arrivano solo imbianchini e operai, ma laureati, professori, tecnici informatici, esperti di amministrazione finanziaria, ingegneri idraulici, agronomi e tanti altri professionisti. Chi accetta di sottomettersi al nostro califfo riceve in cambio protezione e una vita dignitosa.
Col petrolio siamo riusciti a guadagnare fino a tre milioni di dollari al giorno, producendo - mi dicono - 70 mila barili. I nostri addetti alla raccolta delle tasse sono presenti lungo ogni strada e a ogni valico frontaliero, e ogni carico di merci contribuisce con una tassa al benessere dello Stato Islamico. Allo stesso modo, per poter alzare ogni mattina la saracinesca negozianti e commercianti a Raqqa, Mosul, Dayr al-Zawr devono pagare una tassa periodica sui loro guadagni. Chi rifiuta di riconoscere l'autorità del principe dei credenti ne subisce le conseguenze. Così è accaduto a centinaia di membri di clan delle nuove wilayat. Le loro teste sono rimaste a lungo infilzate sugli spuntoni dei recinti dei giardini delle piazze pubbliche di Dayr e Mayadin. [...]
Ho ancora in mente le immagini dei primi reclutamenti avvenuti nella primavera scorsa vicino Ramadi: si raccoglievano forze per partecipare all'offensiva di Mosul. Noi siriani eravamo arrivati da poco. Padri di famiglia e persino anziani della zona si sono uniti alla folla di ragazzi che hanno ricevuto un abbraccio e un bacio sulla fronte dall'emissario dell'emiro, un fucile e una busta con un anticipo dello stipendio mensile dal contabile incaricato dell'arruolamento. Nelle gerarchie dello Stato Islamico gli iracheni, specie quelli che hanno servito nell'esercito di Saddam Hussein, occupano un posto più in alto di noi siriani. Ed è un fatto comprensibile: l'azione del nostro emiro cominciò tra Baghdad e Anbår; lui è iracheno e la loro lotta contro i crociati ha una lunga storia nel paese dei due fiumi. Noi siriani siamo ancora poco esperti e meno organizzati. Anche per questo - così ci hanno spiegato i nostri fratelli superiori - il nostro ruolo è in trincea. E pochi di noi hanno responsabilità di comando ad alti livelli. [...]
I problemi più spinosi finora li abbiamo avuti con alcune tribù. Anche su questo non c'è distinzione tra siriani e iracheni. Si tratta di genti che hanno sempre ignorato i muri artificiali eretti dai crociati e dagli ebrei per frammentare la umma. Le tensioni tra noi e alcuni clan nascono quando non vogliono sottomettersi allo Stato e accettare le nostre regole. [...]
Certo, agli Su'aytat durante l'estate era andata molto peggio: centinaia di loro sono stati uccisi non lontano da Dayr e molti sono stati decapitati perché non volevano condividere con lo Stato il petrolio di quella zona. Il giorno dopo l'uccisione dei loro membri, gli Su'aytat hanno giurato fedeltà e sottomissione al nostro emiro. La lezione inflitta agli Su'aytat dai coraggiosi fratelli è servita a molti altri clan. [...]
Non posso nascondere che ultimamente da Raqqa sono arrivate notizie preoccupanti di piani di sedizione contro lo Stato Islamico. I miei fratelli legislatori hanno allora promulgato un nuovo codice penale basato sulla legge di Dio che dovrà rimettere in riga chi intende trasgredire le regole. Le donne che hanno più di trent'anni non potranno lasciare la città senza il permesso di un garante, che deve essere un parente maschio. È vero, in passato questa restrizione ha causato problemi nelle evacuazioni di massa durante i bombardamenti nemici. Ma la priorità a Raqqa e dintorni è mantenere uno stretto controllo sui movimenti degli abitanti. Tra le donne di Raqqa si nascondono molti nemici dello Stato Islamico. I loro fratelli e parenti, di nascosto, tramano contro di noi e contro i nostri superiori non siriani, da alcuni definiti addirittura "occupanti". Secondo il nuovo codice non si potrà più pregare fuori dalle moschee, per motivi di ordine pubblico. Perché come già avveniva nelle città siriane in rivolta nel 2011 e nel 2012, gli assembramenti pubblici del venerdì possono fornire il pretesto per azioni sobillate dai nostri nemici. Per questo, le spie saranno giustiziate nella piazza pubblica e le adultere - causa di disordine sociale - saranno lapidate se sposate o fustigate se vergini...(R.it Esteri)
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