La vita in Crimea, russa da otto mesi...





di Michael Birnbaum – Washington Post

È complicata, spiega il Washington Post, e molti ucraini cercano di andarsene: ma c'è chi conta che le cose migliorino e chiede pazienza


Otto mesi dopo l’annessione alla Russia della Crimea, la penisola nel Mar Nero che faceva parte dell’Ucraina, le tracce della dominazione ucraina che è durata sessant’anni stanno rapidamente scomparendo. Ora, gli stessi abitanti di etnia ucraina temono per ciò che potrà succedere in futuro. La lingua ucraina è scomparsa dai programmi scolastici; il simbolo presidenziale della Russia, l’aquila a due teste, è ora esposto negli edifici governativi, e le leggi russe stanno lentamente entrando in vigore. E mentre la penisola si “russifica”, gli ucraini e i membri delle altre minoranze stanno accorgendosi del fatto che un posto un tempo noto per il suo cosmopolitismo sta oggi cambiando in peggio. Alcuni di loro stanno lasciando le loro case.
Molti si lamentano di essere stato dimenticati sia dal mondo sia dalla stessa Ucraina, concentrata sulla violenta guerra in corso nel sudest del paese. La paura è una delle dure conseguenze della prima, estesa appropriazione di un territorio avvenuta in Europa dai tempo della Seconda guerra mondiale: ed è arrivata nonostante la Russia abbia assicurato che la vita sarebbe stata migliore, dopo l’annessione, sia per i russi sia per gli ucraini della zona.
La chiesa ortodossa ucraina è presto diventato il luogo più sicuro per gli ucraini della Crimea: qui, la domenica, possono radunarsi, chiacchierare e pregare protetti da un’autorità i cui capi stanno a Kiev, e non a Mosca. Ma l’arcivescovo Kliment, il capo della chiesa in Crimea, teme per se stesso.
«Mi alzo alla mattina preoccupato, vado a letto preoccupato», ha raccontato dalla sede della chiesa a Simferopoli, ricavata da un edificio che un tempo ospitava una scuola. Ha aggiunto Kliment: «stanno chiudendo le scuole ucraine, i giornali ucraini. La chiesa ucraina è l’unica cosa che è rimasta». Un sondaggio effettuato quando la Crimea faceva ancora parte dell’Ucraina ha mostrato che circa il 12 per cento dei crimeani residenti – cioè circa 280mila persone – si definiva ucraino ortodosso. Da quando il territorio è stato conquistato dalla Russia, ha detto Kliment, la pressioni che la chiesa ha ricevuto lo hanno indotto a chiudere un terzo delle sue congregazioni. Molti dei preti ucraini ortodossi sono fuggiti all’estero.
Kliment, oggi, è lontano anni luce dal febbraio del 2014, quando da un palco di Kiev annunciò ai manifestanti che la chiesa ucraina ortodossa – che dopo la caduta dell’Unione Sovietica si era separata da quella russa ortodossa – avrebbe ritirato il suo appoggio all’allora presidente Yanukovich. La folla approvò il suo annuncio. Nel giro di alcuni giorni, Yanukovich fu spodestato, e la Russia invase la Crimea.
Putin, allora, disse di stare agendo per difendere gli interessi dei cittadini ucraini di etnia russa, sebbene i presunti rischi che queste persone correvano venivano sottolineati unicamente dai media di proprietà del governo russo.
Molte persone di etnia russa erano contente di potersi unire a un paese ricco e che prometteva loro uno stile di vita più alto. Nel referendum tenuto a marzo, il 97,6 per cento dei partecipanti ha votato per entrare nella Russia. I critici hanno messo in discussione la validità del referendum, che gli avversari politici dei russi avevano boicottato.
Alcuni di loro hanno spiegato di non avere un futuro, in Crimea. Darya Karpenko ha svuotato il proprio appartamento di Simferopoli e ha venduto la sua Nissan questo mese, sistemando le ultime cose prima di trasferirsi con sua figlia di due anni a Cracovia, da suo marito. Anche se lei è di etnia russa, ha detto di non aspettarsi niente nella città nella quale è nata: «mi sembra quasi di stare saltando sull’ultimo treno che parte da questa città. Non abbiamo pianificato le nostre vite mettendo in conto di partire. Abbiamo comprato una bella casa. L’abbiamo ristrutturata. Ci abbiamo messo dentro dei mobili costosi. Ora abbiamo perso tutto. Mio marito è un informatico. C’erano 50 piccole società in città, ora sono tutte chiuse».
Prima dell’annessione alla Russia, Karpenko teneva un blog piuttosto popolare, e lavorava come consulente economico in Ucraina. In seguito all’annessione, racconta, pubblica con molta cautela i commenti sulla propria pagina Facebook, e ha costantemente paura dei servizi segreti russi: «mi aspetto che da un momento all’altro arrivino a cercarmi, ogni volta che ospito un’accesa conversazione online. Perché i servizi segreti fanno davvero visita alla gente: non è una diceria». Alcuni dei suoi amici, sostiene, sono stati interrogati dopo aver criticato l’annessione. Almeno 25 fra i suoi amici e conoscenti se ne sono andati, dice Karpenko, che ad oggi non ha più nessuno che condivide le sue idee con cui parlare durante i suoi ultimi giorni in Crimea: «la gente se ne va tutti i giorni: persone molto intelligenti, istruite, che fanno parte della classe media».
Molte persone che abitano in Crimea, anche quelle che hanno appoggiato l’annessione alla Russia, si trovano ora in una specie di terra di mezzo. Le reti cellulari ucraine non funzionano più, e improvvisamente parenti ed amici devono essere contattati tramite costose telefonate internazionali. Le attività commerciali devono ora sottostare alle leggi russe. Le nuove autorità crimeane, appoggiate dalla Russia, hanno chiuso le filiali di diverse banche ucraine, mentre quelle che non sono state colpite hanno chiuso, lasciando i risparmi di molte persone in una specie di limbo. Le autorità ucraine hanno sbloccato a fatica i versamenti di soldi in direzione delle nuove banche russe, che a loro dire sono l’espressione di un’occupazione illegale. Il turismo, che una volta era una garanzia dell’economia locale, ha avuto problemi causati dall’assenza dei turisti stranieri. E l’agricoltura ha risentito del fatto che l’Ucraina ha tagliato la quantità d’acqua che inviava alla Crimea attraverso un canale.
Nei prossimi mesi, vivere in Crimea potrebbe diventare ancora più complicato. La Russia richiederà che per accedere al servizio sanitario i residenti debbano procurarsi un passaporto russo: cosa che costringerà le persone a rinunciare alla cittadinanza ucraina o ad andarsene. L’Ucraina, nel frattempo, sta imponendo dei limiti alla quantità di denaro contante che i crimeani possono portare con sé attraverso il confine.
Ma ci sono molti crimeani, ad oggi, sono felici di fare parte della Russia, nonostante l’iniziale euforia sia scomparsa. Alcuni sono contenti di essere stati annessi ad una nazione con cui hanno sempre avvertito un legame. Altri sperano di ottenere delle opportunità economiche. Molti dicono che se non fosse stato per l’intervento russo avrebbero sperimentato la stessa, sanguinosa vicenda dei territori del sudest dell’Ucraina – sebbene quel conflitto sia stato iniziato dall’occupazione di edifici governativi da parte dei filorussi.
Alexander Burtsev, il direttore di una scuola d’arte per bambini di Sebastopoili (la città che ospita la flotta russa del Mar Nero), ha detto: «mi sento come se avessimo sperimentato una specie di “immigrazione interna”. Io sono russo. Adesso le nostre vite sono migliorate, sia finanziariamente sia, soprattutto, dal punto di vista morale». Le nuove autorità locali gli hanno promesso un nuovo edificio per la sua scuola d’arte, dove i suoi studenti imparano a dipingere e scolpire su fragili sgabelli in legno di epoca sovietica. Quelli che si lamentano del periodo di transizione, spiega Burtsev, sono semplicemente impazienti: «i tempi non sono facili, perché ci stiamo spostando da una legislazione ucraina a una russa. Ma si tratta di un problema temporaneo».
Le autorità hanno detto che provvederanno ai guai che hanno accompagnato l’annessione, e spiegato che le minoranze etniche potranno vivere in Crimea a patto che rispettino le leggi russe. Il primo ministro crimeano Sergei Aksymov ha risposto per iscritto ad alcune domande: «l’Ucraina è stata come una matrigna cattiva, per la Crimea. Rendere la Crimea autosufficiente è il nostro obiettivo: abbiamo pianificato di raggiungerlo in cinque anni». Il governo russo, sostiene Aksymov, ha promesso 15,5 miliardi di dollari per raggiungere l’obiettivo. Per quanto riguarda la chiesa ortodossa ucraina, Aksymov ha detto che nessun’altra chiesa la riconosce. Il suo futuro dipenderà da un suo possibile riconoscimento in Russia, cosa che appare improbabile.
L’arcivescovo Kliment ha detto che combatterà finché potrà: «fino a quando l’ultimo ucraino lascerà la Crimea, dobbiamo stare qua per loro».
©Washington Post 2014

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