Nella casa maledetta di Dallas: chiusi dentro con l’incubo Ebola...
I familiari dell’uomo che ha portato il virus negli Usa: “Basta quarantena, fateci uscire”
Un volontario distribuisce coperte ai famigliari di Thomas Eric Duncan (l’uomo che ha portato Ebola negli Stati Uniti) chiusi in una residenza di Dallas
INVIATO A DALLAS
«Siamo chiusi qui, nelle mani di Dio. Aspettiamo di sapere». È colma di angoscia la voce di Louise Troh, quando risponde al telefono della sua casa, nel modesto complesso residenziale degli Ivy Apartments. Thomas Eric Duncan, il suo fidanzato, era venuto in America dalla Liberia per sposarla e costruire una nuova vita insieme. Invece ha portato l’Ebola, la paura, e adesso lotta per sopravvivere in una stanza d’ospedale, mentre Louise è chiusa in quarantena con il figlio e due nipoti, nell’appartamento dove l’incubo si è manifestato.
Fair Oaks Avenue è una comunità alla periferia di Dallas, uguale a decine di altre città americane. Una strada a quattro corsie, col supermercato, il distributore di benzina, le scuole per i bambini, e poi stradine laterali che portano verso palazzine a due piani come quelle dei motel. Al numero 7225, però, c’è la Ground Zero dell’infezione di Ebola negli Stati Uniti, che ogni giorno fa più paura. Ieri c’erano allarmi alle Hawaii e nello Utah, oggi un malato febbricitante che aspetta di sapere se è condannato a morte in un letto dell’Howard University Hospital di Washington, la capitale. Quanti casi così si nascondono in America, e magari anche in Europa? Quanti malati sono riusciti a salire sugli aerei per scappare dall’Africa occidentale, non avendo i sintomi o nascondendoli? Qui a Dallas, l’epicentro, le autorità sanitarie hanno ridotto a cinquanta le persone che vengono monitorate ogni giorno, e di esse dieci sono considerate ad alto rischio. Finora nessuno ha manifestato sintomi, ma i medici controllano la temperatura e tutto il resto due volte al giorno, pronti a portarli di corsa in ospedale.
I primi quattro ad alto rischio, i più minacciati, sono Louise, suo figlio e due nipoti, chiusi nell’appartamento 614 per ordine del giudice: «Io - spiega lei - dormo nel soggiorno. I ragazzi nella camera da letto. Quella dove stavo con Eric l’abbiamo chiusa a chiave, mettendo lenzuola e asciugamani dentro una cesta. Non ne possiamo più, però. Vogliamo uscire». Clay Lewis Jenkins, il giudice della Dallas County che ha imposto loro la quarantena, parlando con i giornalisti sembra quasi pentito: «Ieri sera alle nove sono stato a casa di Louise. Sono dispiaciuto per lei e per i ragazzi, vivono in una condizione terribile. Vorrei trattarli come fossero la mia famiglia, vorrei spostarli in un luogo più dignitoso, ma per ora non abbiamo neanche i permessi necessari a rimuovere gli ascugamani sporchi di Duncan».
Qui, e in mezzo al giardino degli Ivy Apartments, il paziente zero ha sudato e vomitato, prima che i medici capissero che aveva l’Ebola. Eppure la gente tira avanti, come sempre. È una comunità di immigrati da mezzo mondo, al punto che nella vicina Conrad High School, dove andava uno dei ragazzi messo sotto sorveglianza, si parlano 32 lingue. Same Bee, una ragazza indonesiana di dodici anni col velo in testa, si ferma a parlare un istante, mentre esce di casa per andare a scuola: «Certo che lo conoscevo. Era qui, nel giardino, lo abbiamo visto tutti. Io sono terrorizzata, come le mie amiche. Mi tocco la fronte, non dormo la notte. Ma cosa devo fare? Vado a scuola, spero che non mi tocchi». Willy, un vicino nero che vive qui da sempre, è ancora più fatalista: «Dio lavora in maniera misteriosa. Se succede, succede». Sullo stesso pianerottolo abita Maria, una immigrata messicana che non parla neppure l’inglese. Guarda Willy come fosse un pazzo, e si tiene stretta i suoi tre figlioletti: «Perché lo hanno fatto venire proprio qui? Perché non lo hanno fermato prima?». Perché non sembrava malato, quando era partito, e secondo il pastore della Wilshire Baptist Church voleva solo venire a sposare la sua Louise.
Davanti alla casa si è insediato l’abituale circo mediatico, con gli elicotteri che volteggiano per prendere le immagini più intrusive. Passano pure i politici, come Eric Williams, candidato indipendente al Congresso nelle elezioni di novembre: «Temo che tutto questo si trasformerà in altra discriminazione verso i neri, accusati adesso di portare anche le malattie infettive. Qui a Dallas vivono 10.000 persone di origine liberiana e 45.000 nigeriani. Sono venuti perché il Texas è uno stato petrolifero, dove potevano trovare gli stessi lavori dell’industria estrattiva che facevano a casa. Ora, però, se qualcuno vede un nero pensa subito che sia un terrorista venuto a contagiare con l’Ebola». Williams vorrebbe che la risposta non fosse «chiudere le frontiere, ma piuttosto varare la legge per contrastare le malattie tropicali, al HR 4847, dimenticata in Congresso da anni. È più probabile, però, che finiremo per imporre la quarantena a tutta la Liberia».
È curioso che ci sia voluto tanto tempo, per ricoverare e curare Duncan. Il Texas Health Presbyterian Hospital è dietro casa, ci si arriva a piedi, eppure il sistema non ha reagito come doveva, quando lui ha rivelato di essere venuto dalla Liberia. Imboccando l’entrata dal parcheggio per le auto, si arriva senza essere fermati al terzo piano, dove c’è il reparto per le malattie infettive. Dietro la porta della dottoressa Katia Brown stanno cercando di salvare la vita di Thomas, ma ripetono che «le sue condizioni restano serie. Non abbiamo novità rispetto a ieri». Intanto la Food and Drug Administration si sta muovendo per approvare in fretta due vaccini contro l’Ebola. Uno è quello sviluppato dalla compagnia italiana Okairos, ma comunque non arriverà in tempo per salvare Duncan e Louise.
Davanti all’appartamento 614 intanto si sono schierati i camion con la scritta «haz-mat», materiali pericolosi. Il giudice Jenkins ha ottenuto i permessi, sono venuti a ripulire la casa degli «appestati». «Preleveremo lenzuola, asciugamani e vestiti - dice Jenkins - ma non sappiamo ancora dove li butteremo. Per ora resteranno nei contenitori, sotto guardia armata». Una scena surreale, da film. E magari lo fosse. Invece è la realtà, con bambinetti ispanici e asiatici che sgambettano ridendo davanti ai pompieri, mentre si infilano le tute protettive prima di entrare nella casa della quarantena. L’Ebola, la paura di una misteriosa minaccia di morte, materializzata dal cuore dell’Africa in mezzo alle palazzine di una comunità di immigrati nel Texas. E oltre quel portone verde scuro, separata con un fragile muro dalle altre famiglie terrorizzate, una madre in lacrime che pensava di cominciare la sua nuova vita.
(La Stampa Mondo)
Commenti