Wikileaks dell'Isis. I segreti del califfato svelati da un alto dirigente dello Stato islamico...





 
Inviato di guerra, la Repubblica

C'è un Julian Assange jihadista che svela i segreti del Califfato. Segreti inconfessabili. Perché imbarazzanti. Quelli che nessun alto dirigente dell'Isis vorrebbe rendere pubblici. Ma che spiegano bene la struttura della più potente e pericolosa organizzazione terroristica islamica, i suoi legami con chi l'ha finora sostenuta e finanziata e che magari oggi, nel tipico doppio gioco dello scacchiere mediorientale, fa parte della coalizione dei 40 paesi che la combatte. L'autore dei wikiLeaks dello Stato islamico si nasconde dietro un account twitter apparso improvvisamente in rete nel gennaio scorso. Ha iniziato a postare una serie di domande su chi fosse veramente Abu Bakr al Bagdadi e su come fosse riuscito a conquistare un territorio che si estende dai confini est del Libano fino alla provincia sunnita irachena di al Anbar. Ha creato un dossier a puntate sotto l'accattivante titolo: "I segreti di Stato di Baghdadi".
Le sue risposte sono state raccolte da un pool investigativo dal sito arabo in lingua inglese "alakhbar". Si tratta informazioni difficili da verificare. Pochissimi sono a conoscenza delle trame e degli scontri interni al Fronte delle brigate impegnate da tre anni nella guerra in Siria; le stesse che tra mille divisioni alla fine hanno contribuito alla nascita dello Stato Islamico.
Ma la serie di episodi che li hanno scanditi sono realmente accaduti. Hanno date, nomi e luoghi. L'anonimo estensore dei Wikileaks del Califfato li ha vissuti in prima persona. Si tratta probabilmente di qualcuno interno al gruppo che aveva accesso a informazioni di prima mano. Un alto quadro dell'Isis tuttora attivo. Magari infiltrato da un gruppo avversario. Perché nella feroce lotta per la conquista della leadership si è fatto di tutto: anche una raffica di omicidi per eliminare i dissidenti, i potenziali disertori, chiunque poteva svelare dettagli che dovevano restare segreti. L'obiettivo era costruire per la prima volta un'entità territoriale ben definita. Un vero Stato islamico. Ma doveva restare coperto fino all'ultimo.
Il Califfo di Raqqa in realtà si chiama Ibrahim Awwad Bou Badri bin Armoush, noto come Abu Awwad o Abu Doaa. Abu Barkr al Bagdadi è solo uno pseudonimo. Ha vissuto a Falluja, in Iraq, ed è stato per anni l'imam di una moschea a Diyala. Le sue origini, al dispetto del nome, non sono di Bagdad ma di Samarra. Fa parte del clan Bou Abbas: clan che sostiene essere discendente dell'imam al Hassan Bin Alì. Le sue radici affondano nella tribù Quraysh, condizione essenziale per diventare un emiro in un gruppo jihadista. Questo spiega perché il principe del terrore ha potuto proclamarsi Califfo dello nuovo Stato Islamico. L'assenso delle più alte cariche religiose dell'area è indispensabile. Ma va cercato e conquistato.
Abu Bakr al Bagdadi appare raramente in pubblico e anche davanti ai suoi stessi uomini. È sospettoso, ossessionato dai tradimenti e dai complotti. Per questo, lui iracheno, si contorna solo di connazionali che controllano la leadership dello Stato islamico. Il Consiglio o Shura, l'organo esecutivo dell'Isis, è formato da 8 persone alle quali, in occasioni speciali, se ne aggiungono altre 5. Il direttivo, struttura strategica del gruppo, è costituito da 3 ex ufficiali iracheni che hanno servito nell'esercito di Saddam Hussein.
Tutti sono stati agli ordini di un ex colonnello iracheno, Haji Bakr, capo militare dell'Isis, ucciso ad Aleppo il 2 febbraio scorso durante uno scontro con le brigate laiche dell'Esercito libero siriano. È stato questo oscuro e spietato ex militare a creare le basi per la nascita dello Stato islamico. Conosceva bene il suo paese. Sapeva dove trovare le armi e gli esplosivi. Ha svelato al gruppo dirigente tutte le tecniche di combattimento che aveva appreso in anni di servizio nell'esercito di Saddam. Ha spiegato come agivano gli ex militari entrati nella guerriglia dopo l'invasione americana dell'Iraq, i sistemi di comunicazione, di difesa, di intercettazione.
Ha lavorato nell'ombra per mantenere in Iraq la futura leadership del Califfato e ha proposto nel momento giusto la nomina di Abu Bakr al Bagdadi come suprema guida. Ma ha anche creato una struttura di comando a compartimenti stagni. Al tempo stesso ha messo in piedi un servizio di intelligence simile a quello di Saddam: ha sguinzagliato spie in tutte le brigate che combattevano in Siria e ha pianificato gli omicidi per i sospetti. L'ordine era bloccare ogni dissidenza. Con il terrore e la delazione. Uno squadrone della morte ha fatto fuori decine di alti responsabili delle brigate e di quadri intermedi. Era noto come il "Gruppo del silenziatore": firmava le sue azioni con pistole silenziate. A molti combattenti stranieri decisi a rientrare a casa sono stati confiscati i passaporti. Gli altri sono stati fermati con il piombo. È stato sempre Haji Bakr a pianificare la raccolta dei fondi: taglieggiando i commercianti, i cristiani, gli yazidi, conquistando i pozzi petroliferi, gli impianti energetici e di carburante, le fabbriche e i centri di distribuzione.
Nel 2011 scoppia la rivolta in Siria. L'ex colonnello teme la fuga di molti combattenti impegnati in Iraq. Serra le fila. Con le buone e le cattive. Uccidendo e facendo lanciare ordini al Consiglio della Shura. "La situazione è confusa, meglio aspettare", suggerisce. Ma la rivolta diventa presto guerra e un fiume di combattenti si riversa in Siria. Al Qaeda forma nel nord del paese il Fronte al Nusra e lo affida a Abu Mohammed al Golani. Tra l'ancora neonato Isis e al Nusra ci sono i primi contatti. Hajii Bakr sonda le intenzioni di una brigata che può contare fino a 10 mila combattenti. Spedisce un gruppo di soli iracheni in Siria. Ma i rapporti con al Golani sono pessimi.
Per ricucire i contrasti interviene spesso anche al Zawahiri, il nuovo capo di al Qaeda. Il quale, alla fine, appoggia il giovane comandante e confina l'Isis in Iraq. La tensione esplode nel 2013: i due gruppi si confrontano per quattro mesi, con centinaia di morti e prigionieri. Haji Bakr torna nell'ombra. Cerca consensi religiosi e politici. Convince l'influente imam saudita Abu Bakr al Qahtani a riconoscere il progetto del Califfato. E al Qahtani, a sua volta, incarica un ex ufficiale della monarchia Bandar Bin Shaalan a creare un gruppo religioso di supporto nel Golfo. Vengono coinvolti il Qatar e il Bahrain. Entrambi, attraverso religiosi e facoltosi commercianti, contribuiscono alla raccolta dei fondi. Lo Stato islamico non è più un sogno, può essere una realtà.
Al Golani, sempre più pressato, non risponde più agli ordini. Si sente braccato, teme di essere ucciso, diffida di tutti e tutto. Cadrà in battaglia il 25 ottobre del 2013. Neanche l'intervento del capo di al Qaeda in Yemen, Nasser al Wahishi e di quello kwaitiano Hamed ad-Ali, riescono a salvarlo. Al Zawahiri si pronuncerà ufficialmente a favore di al Nusra ma l'intensa attività politica e diplomatica di Haji Bakr porta alla sconfitta dello stesso capo di al Qaeda.
Il Califfo ha le porte aperte. Con decine di brigate irachene irrompe sulla scena siriana e si installa a Raqqa. Il Fronte delle altre brigate è in rotta. I ceceni si defilano in silenzio. Hanno persino paura di annunciare la loro ritirata. Gli altri sono infiltrati da Haji Bakr. Vuole sapere i loro punti deboli. Deve contrastarli perché sono i più forti oppositori all'arrivo degli iracheni in Siria. Sul campo resta solo una decina di gruppi. Sui tutti domina Liwaa al Tawhid, legata ai Fratelli Musulmani: può contare su 10 mila combattenti. I suoi dirigenti diffidano dell'ex colonnello iracheno e del suo progetto di Califfato.
Durante uno dei tanti scontri catturano un centinaio di combattenti e alti quadri dell'Isis. Tra questi la moglie di Hajii Bakr. Conoscono molti segreti del nuovo Stato islamico. Sono ostaggi preziosi. L'Isis teme che possono parlare, svelare dettagli vitali per il gruppo. Quando conquista Mosul cattura 49 cittadini e funzionari turchi nel consolato. Li userà come merce di scambio per gli ostaggi nelle mani di Liwaa al Tawhid. Grazie alla mediazione dei servizi turchi che avevano tutto l'interesse a unire il Fronte dei ribelli jihadisti. Per dare l'ultima spallata a Bashar al Assad. E cancellare ogni prova sul suo, finora presunto, aperto sostegno al sogno mai tramontato di un Califfato sotto l'egida di Ankara.


(L'Huffington Post)



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