Non solo Gaza: ecco la settimana nera della violenza internazionale...





Di Luca Lampugnani 
Lo avevamo preannunciato all'inizio dell'anno, oggi è più che mai realtà: il mondo è una polveriera. Anzi, peggio. Tutto ciò che allora poteva essere infatti solo ipotizzabile, oggi è un vero e proprio teatro di morte, conflitto tra i conflitti, ulteriore fronte in un presente caratterizzato dalla violenza. Come ha detto con grande efficacia ed estrema sintesi qualche giorno fa in un'intervista alla CBS Madeleine Albright, Segretario di Stato USA durante la presidenza Clinton, "senza esagerare, il mondo è un casino".

Ovviamente il pensiero porta immediatamente alla Striscia di Gaza, dove il rinnovato astio armato tra Israele e Hamas sta mietendo vittime, in larga parte civili, in un'escalation brutale che appare al momento senza fine. Oppure nella Libia del dopo Gheddafi, ancora una volta trascinata da milizie e fazioni nel baratro della guerra civile. E ancora in Iraq, Ucraina, Siria.
Tuttavia, in questa macabra giostra, non vanno dimenticati anche i focolai che raramente, o peggio mai, guadagnano le prime pagine dei giornali, anche solo un piccolo ritaglio. In tutto questo, come ha ricordato Bobby Ghosh del Quartz, la settimana che sta per finire è stata a tutti gli effetti una delle più nere per quanto riguarda la violenza internazionale, con il più che reale rischio che le prossime siano anche peggio.
Di seguito, punto per punto, ecco una carrellata delle peggiori brutalità - famose o meno - degli ultimi sette giorni.

Striscia di Gaza

Cominciata l'8 luglio, entra sabato nel suo 26esimo giorni l'operazione dell'Esercito israeliano a Gaza denominata "Protective Edge". Ciò che sta avvenendo nel MO è piuttosto noto, largamente seguito e di ampia risonanza. Nell'ultima settimana, tra bombardamenti sulle scuole, cessate il fuoco violati e soldati rapiti, è certamente una delle peggiori dall'inizio delle ostilità che contrappongono, ancora una volta, Tel Aviv ad Hamas. Il bilancio dei morti, in continuo aggiornamento e quindi difficilmente preciso al millesimo, conta oltre 1400 vittime tra i civili palestinesi, con un gran numero di donne e bambini. Nel frattempo, mercoledì, per la seconda volta dall'avvio di "Protective Edge" un istituto dell'UNRWA (agenzia ONU per l'aiuto ai rifugiati palestinesi) nella Striscia di Gaza è stata colpito dal fuoco dei bombardamenti, azione che le Nazioni Unite addossano ad Israele. Ancora più recentemente, inoltre, l'ennesimo tentativo di un cessate il fuoco è fallito miseramente tra le reciproche accuse di Tel Aviv e Hamas. Annunciata per venerdì, teoricamente della durata di 72 ore, la tregua umanitaria fortemente sponsorizzata dal Segretario di Stato USA John Kerry e dal Segretario Generale dell'ONU Ban Ki-moon si è infranta solo due ore dopo, con almeno due soldati dell'IDF uccisi e una sessantina di vittime palestinesi. La rottura, di cui la comunità internazionale incolpa Hamas, ha ovviamente peggiorato ulteriormente la situazione, allontanando momentaneamente i colloqui diplomatici mediati dall'Egitto e radicalizzando, ulteriormente, il conflitto.

Cina, Xinjiang

La regione forse più inquieta di tutto il Dragone, agitata dalle tensioni tra i 'coloni' voluti da Pechino e gli abitanti autoctoni del gruppo etnico degli Uiguri (turcofoni, musulmani), è tornata a sanguinare martedì. Stando alle agenzie del Paese, armati di coltelli e asce, alcuni aggressori (terroristi, per il governo, colpevoli di un "premeditato e organizzato" attacco terroristico) hanno preso d'assalto una stazione di polizia e alcuni edifici pubblici in un piccolo centro abitato della prefettura di Kashgar, mietendo decine e decine di vittime civili indistintamente tra gli Han (i 'coloni' dello Xinjiang di etnia cinese) e gli Uiguri. Dell'attacco, come in altre occasioni decisamente più seguite dai media internazionali (si pensi all'autobomba in piazza Tienanmen), il governo ha incolpato senza possibilità di appello le frange estremiste degli Uiguri, facendo sbrigativamente calare il silenzio sugli eventi. Tuttavia, nonostante le difficoltà di avere report dettagliati dovuto all'imponente controllo sull'informazione esercitato da Pechino, appare piuttosto evidente come la situazione dello Xinjiang stia degenerando, dipingendo scenari futuri di ulteriore violenza - da una parte e dall'altra - e di brutalità.

Ucraina

Dopo un'iniziale attenzione a tutto tondo, nel corso dei mesi le fasi della crisi ucraina sono finite, colpevolmente, sotto il tappeto. A riaccendere i riflettori sull'ex satellite sovietico è stato l'abbattimento del volo MH17 della Malaysia Airlines, colpito mentre volava sulla regione orientale del Paese controllata dai ribelli filo-russi. Tra Kiev e Mosca, mentre esperti internazionali faticano tra le esplosioni ad esaminare il luogo dell'impatto, è scambio di accuse a viso aperto. Secondo i funzionai ucraini la colpa è assolutamente dei filo-russi armati e sponsorizzati dal Cremlino, secondo Putin la versione del missile BUK - di cui non è chiaro se i separatisti siano in possesso - è da scartare, tanto che alcuni satelliti avrebbero registrato la presenza di almeno due caccia di Kiev nei pressi del Boeing pochi minuti prima dell'abbattimento. L'episodio, che non ha fatto altro che alzare la tensione, ha contribuito anche ad una rinnovata e serrata guerriglia tra le Forze Armate dell'Ucraina e i ribelli, particolarmente violenta nell'ultima settimana. Secondo dati forniti dall'ONU, da quattro mesi a questa parte, il conflitto ha messo a bilancio oltre 1000 morti e più di 3000 feriti.

Camerun, Boko Haram

Conosciuto principalmente per il rapimento di oltre 200 ragazze, il gruppo che sta mettendo a ferro e fuoco la Nigeria ha mostrato al mondo quanto sia poco 'locale' il terrore che si porta dietro. Come riportato in sordina dalle agenzie, nei giorni scorsi i militanti di Boko Haram hanno attraversato il confine con il Camerun, rapito almeno tre persone, e lasciato a terra numerose vittime. Tra i catturati, a dare l'idea dell'alto valore simbolico di questa azione, la moglie del vice primo ministro del Camerun Amadou Ali, rapita con un leader religioso e un politico locale di un villaggio sulla frontiera tra Nigeria e Camerun. Quest'ultimo, già da qualche tempo, si è impegnato a costituire, con la collaborazione di Niger e Ciad, una forza speciale interna alla Nigeria che potesse mettere i bastoni tra le ruote ai Boko Haram, che nonostante tutto sembrano poter agire indisturbati terrorizzando tutta la regione.

Libia

Sull'orlo di una rinnovata guerra civile, Tripoli appare oggi come una bomba ad orologeria troppo complicata da disinnescare. Tra fazioni islamiste, non islamiste e gruppi qaedisti, la violenza ha portato nei giorni scorsi alla semi-distruzione dell'aeroporto di Tripoli, mentre in varie zone del Paese andavano a fuoco cisterne di benzina e le rispettive offensive lasciavano ben poca speranza per un futuro di serenità dopo la rivoluzione, tre anni fa, contro il rais Gheddafi. Nel frattempo il caos regna anche a Bengasi, dove solo pochi giorni fa militanti jihadisti hanno annunciato di aver preso il controllo della città, proclamando la costituzione di un emirato islamico. La notizia, tuttavia, è stata smentita nel giro di poche ore da Khalifa Haftar, il generale che combatte gli islamisti e assoluto protagonista degli avvenimenti degli ultimi giorni in Libia. Avvenimenti che hanno portato, inoltre, ad una sorta di esodo diplomatico dal Paese. Molte ambasciate, tra cui quella Statunitense e quella dell'Unione Europea, si sono infatti messe alle spalle Tripoli, la cui aria diventa ora dopo ora sempre più calda.
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Iraq

Con la politica di Baghdad al palo, incapace di costituire un governo che superi l'amministrazione settaria di Maliki, l'avanzata da Nord dell'ISIS, gruppo jihadista rinnegato da Al Qaeda, sembra continuare indisturbata. Dapprima impegnati come parte del frammentario mondo dei 'ribelli' in Siria, gli uomini dello Stato Islamico dell'Iraq e del Levante hanno attaccato dal nord dell'Iraq all'inizio di giugno, guadagnando terreno nei confronti di un Esercito particolarmente impreparato e riuscendo così a costituire, e per il momento a mantenere, un vero e proprio califfato tra Damasco e Baghdad. Proprio nella capitale irachena, nonostante una presenza maggiore di militari sotto attacco ripetuto, venerdì un'autobomba ha ucciso sei persone ferendone poco meno di una ventina, ingrossando i bilanci e delineando una situazione ai limiti del catastrofico. Basti pensare, benché in calo da giugno (2400 vittime), che solo nel mese di luglio, secondo dati da considerare al ribasso dell'ONU, sono morte poco più di 1700 persone in tutto il Paese.
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Filippine, Abu Sayyaf

È di 23 morti il bilancio di un attacco del gruppo separatista e islamista delle Filippine, da anni in conflitto con uno Stato centrale a prevalenza cattolico. L'azione, che è stata portata a termine nel sud del Paese, ha avuto come vittime civili che si stavano spostando da un villaggio all'altro per passare la fine del Ramadan con alcuni parenti. I militanti di Abu Sayyaf, secondo le agenzie, armati di fucili d'assalto hanno aperto il fuoco contro almeno una cinquantina di persone, uccidendone 23 tra cui 6 bambini.

Siria

Finito pressoché nel dimenticatoio, il conflitto siriano - una guerra estenuante che continua da più di tre anni - è tutt'altro che finito. La compagine ribelle non estremista, appoggiata in primis dagli Stati Uniti, appare ormai solo come un vago ricordo, spazzata via dalla brutalità e violenza di gruppi qaedisti e non. Nel frattempo le Forze Armate di Bashar al-Assad, riconfermato presidente qualche mese fa, sembrano in grado di mantenere le roccaforti, mentre non mancano i report di territori riconquistati e strappati ai ribelli. Tuttavia, com'è piuttosto semplice immaginare, sul fronte siriano le variabili in gioco sono molte, e difficilmente si può ipotizzare che ci siano altri 'sconfitti' oltre ai civili, braccati dagli estremisti dell'Islam e dai raid dell'Esercito regolare. A tal proposito, secondo un report pubblicato mercoledì dall'ONG Human Rights Watch, i soldati di Assad avrebbero violato in pieno una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (2139 del 22 febbraio 2014) che bandiva l'utilizzo delle cosiddette "barrel bombs" (barili carichi di esplosivo e di materiale metallico, lanciate in particolar modo dagli elicotteri) sui civili. Nel frattempo, secondo gli ultimi dati disponibili, il bilancio dall'inizio dei combattimenti ha raggiunto, e superato, le 170 mila vittime, in larga parte civili.

Sud Sudan

Nel terzo anniversario dalla sua nascita, il piccolo Stato africano ha ben poco da festeggiare. Il conflitto tra gli uomini del presidente Salva Kiir e i ribelli guidati da Riek Machar continua a mietere vittime, mentre si affaccia con sempre maggiore insistenza sul Paese lo spettro della carestia. Insomma, quella del Sud Sudan, caratterizzata da scontri a forte valenza etnica - i Dinka di Kiir contro i Nuer di Machar -, dietro al quale comunque si muovono disegni politici tutt'altro che settari, è una crisi umanitaria a tutto tondo. Centinaia e centinaia di persone, soprattutto civili, sono morte dallo scoppiare delle ostilità nel dicembre del 2013, mentre secondo l'ONU sono almeno un milione e mezzo le persone sfollate, costrette dai combattimenti e dalla fame a lasciare le proprie case. Solo qualche giorno fa, mentre colloqui diplomatici tra le parti mediati dall'Etiopia sono stati ulteriormente rimandati a lunedì prossimo, le Nazioni Unite hanno fatto sapere che quella del Sud Sudan è a tutti gli effetti la crisi alimentare più grave di tutto il mondo, aggiungendo che almeno 3,9 milioni di persone non hanno accesso ad una quantità di cibo sufficiente.
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Afghanistan

Anche a Kabul, come a Baghdad, lo stallo politico sta tutt'altro che contribuendo a stemperare la tensione nel Paese. Quando sono ormai passati parecchi mesi dal voto, l'Afghanistan non ha ancora un presidente a causa delle continue accuse di brogli tra i due candidati rimasti in gioco dopo il ballottaggio, Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah. Intanto, mentre i Talebani continuano a colpire il Paese, martedì un attentatore suicida, che portava l'esplosivo nel suo turbante, si è fatto esplodere nella provincia del Kandahar, nel sud dell'Afghanistan, uccidendo il cugino dell'attuale presidente Hamid Karzai, Hashmat Khalil Karzai, sostenitore della campagna e della vittoria di Ashraf Ghani.     

Repubblica Centrafricana

In linea del tutto teorica, quello di Bangui è l'unico fronte aperto che presenta una sottile, labile buona notizia. Le due parti in conflitto, gli anti-balaka (cristiani) e i Seleka (musulmani), hanno infatti raggiunto questa settimana un cessate il fuoco che può, seppur con i piedi di piombo, porre fine ad un conflitto che ha portato a violenze di assoluta brutalità. Tuttavia, come riportato dalle Nazioni Unite venerdì, la situazione non è poi cambiata molto. Nonostante la tregua e i colloqui diplomatici, infatti, i civili continuano a morire, con 26 vittime riportate all'inizio di questa settimana nella prefettura dello Ouham. Dall'inizio delle ostilità, nel dicembre dello scorso anno, il bilancio parla di migliaia e migliaia di vittime, mentre secondo i dati dell'ONU sono almeno 527 mila gli sfollati, di cui 102 mila solo nella capitale Bangui.

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