IRAQ. Le atrocità dell’Isil e i droni Usa su Baghdad...



         L’immagine di un’esecuzione di massa postata dall’Isil su internet (AFP Photo / HO)

La guerra si fa regionale: i jihadisti rivendicano l’attentato di Beirut e sfidano Hezbollah; l’Iran manda i pasdaran e Washington risponde con soldi alle opposizioni siriane e i primi droni armati sulla capitale. - 

di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Roma, 28 giugno 2014, Nena News – Ai media internazionali piacciono i numeri, i bilanci. Dietro quei numeri, si nascondono storie, persone, comunità costrette – dai bilanci – all’anonimato. I numeri che ieri venivano snocciolati dalla stampa per descrivere il caos iracheno erano, ancora una volta, drammatici: oltre 10mila nuovi profughi, in fuga dalla città cristiana irachena di Hamdaniya e dai colpi di mortaio che sono piovuti su strade e quartieri. Tutti a cercare rifugio in Kurdistan. Altri numeri, altro dramma: sono ormai oltre un milione e duecentomila i rifugiati iracheni in fuga dalle province di Anbar, Ninawa, Diyala, occupate dai miliziani islamisti dell’Isil.
Scappano perché temono le violenze, il bagaglio che il nome Isil si porta dietro. Massacri, esecuzioni sommarie, spari sulla folla in fuga. Secondo le Nazioni Unite, sarebbero 1.700 i soldati governativi giustiziati sul posto dai jihadisti. Ieri è arrivata la notizia da Tikrit: tra l’11 e il 14 giugno i miliziani dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante avrebbero ucciso tra i 160 e i 190 prigionieri. Gli stessi islamisti hanno rivendicato l’attentato di mercoledì contro il Duroy Hotel di Beirut, in un’area roccaforte di Hezbollah, sfida diretta al movimento sciita libanese.
E mentre la popolazione è sempre più divisa tra chi teme l’avanzata degli estremisti e chi spera che la distruzione dello Stato iracheno possa riaprire la strada alla comunità sunnita, marginalizzata dal governo di Maliki nel post-Saddam, i poteri regionali giocano la loro partita a scacchi, pronti a sfruttare il caos iracheno per salvaguardare i propri interessi strategici. L’Iran ha dichiarato ieri di aver inviato consiglieri militari in Iraq e, con loro, il generale Qassim Suleimani, capo delle milizie Quds, unità di élite delle Guardie Rivoluzionarie. La notizia giunge dopo le indiscrezioni rilasciate da alcuni funzionari dei servizi segreti Usa, secondo cui Teheran avrebbe fatto entrare in Iraq tonnellate di armi e droni di ricognizione.
Washington tenta di rispondere per le rime e arginare il protagonismo dell’asse sciita: ieri il presidente Obama ha annunciato di voler presentarsi al Congresso per chiedere il via libera all’invio di altri 500 milioni di dollari alle opposizioni moderate siriane, un finanziamento che sarà speso per l’addestramento e l’equipaggiamento dei gruppi anti-Assad. I 500 milioni saranno parte di un pacchetto da 1,5 miliardi di dollari, diretto ad azioni di stabilizzazione che coinvolgeranno Libano, Iraq, Turchia e Giordania. Ancora soldi, ancora armi. Realpolitik mediorientale: la Casa Bianca sa di non poter mettere in pericolo le alleanze con il Golfo, seppure gli interessi di oggi siano più vicini a Teheran e Damasco che a Riyadh e Doha. La soluzione è la solita: un finanziamento a pioggia che in questi tre anni ha moltiplicato i settarismi interni e fatto fiorire le opposizioni radicali, a scapito di quelle moderate. Non solo: un funzionario Usa ha detto alla CNN che droni armati statunitensi hanno cominciato a sorvolare Baghdad nelle ultime 24 ore.
E mentre gli Usa insistono nel sostegno alle opposizioni siriane, la Russia punta al supporto dell’asse sciita. Baghdad ieri ha annunciato la firma di un contratto con Mosca che fornirà jet militari all’esercito governativo. Gli aerei dovrebbero arrivare tra due giorni, nuova mossa di Putin per assicurarsi lo spazio di manovra necessario in Medio Oriente. Vicino al regime di Assad, rifornitore di armi al regime di Damasco e di tecnologie nucleari a Teheran, ora punta a Baghdad: da tempo Mosca è alla caccia di contratti per l’estrazione di greggio in Iraq e il caos di questo giugno potrebbero essere l’occasione ideale per infilare le mani nelle ricche risorse di cui dispone il paese.
Nell’occhio del ciclone resta il premier Maliki, che non intende mollare la presa nonostante le pressioni che giungono da fuori e da dentro. Dopo i palesi inviti occidentali ad abbandonare la poltrona di primo ministro a favore di un governo di unità nazionale, a premere dall’interno è la stessa comunità politica sciita. Il leader religioso Moqdata al-Sadr mostra i muscoli e da giorni – forte del sostegno di decine di migliaia di miliziani a lui fedeli – chiede a Maliki di lasciare. Ma oggi a preoccupare di più il premier sono le sollecitazioni provenienti dallo stesso alleato iraniano. Secondo fonti iraniane, il generale Suleimani si ripresenterà tra pochi giorni in patria, dopo una settimana di incontri con politici sciiti iracheni, con una lista di potenziali candidati a capo dell’esecutivo.

Commenti

AIUTIAMO I BAMBINI DELLA SCUOLA DI AL HIKMA

Post più popolari

facebook