Storia di Nadia, scappata da Homs «Volevo essere felice nella mia Siria»...





A 15 anni è stata costretta a lasciare la Siria a causa della guerra. «Mi mancherà sempre Homs. Avevo una vita semplice e bella, avevo tanti sogni che avrei voluto realizzare in Siria».


Scappano da una delle peggiori emergenze umanitarie contemporanee – la guerra civile che sta dissanguando la Siria e di cui hanno visto e subito tutta la disumana violenza. Sono migliaia di bambini e adolescenti che, sempre più numerosi, arrivano sulle nostre coste: 1.542 su 2.124 fra quelli soccorsi e poi sbarcati insieme alle famiglie dall’inizio dell’anno nel nostro paese sono siriani. Il racconto di ciò che hanno vissuto è il rapporto di Save the Children (www.savethechildren.it) diffuso in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, che cade proprio il 20 giugno. L’organizzazione - che dal 1919 lotta per salvare la vita dei bambini e difendere i loro diritti – ha raccolto molte testimonianze di minori e giovani adulti in Sicilia, Calabria e Milano. Un grido di aiuto rivolto all’Italia e all’Europa i cui governi – chiede la ong – accolgano i profughi siriani nei loro territori e fermino le procedure di rinvio che violano il principio di non –refoulement.

Storia di Nadia
Sono persone e spessissimo bambini o adolescenti che hanno già sofferto abbastanza, come Nadia, 15 anni, originaria di Homs, la città siriana che in tre anni di guerra ha pagato un alto tributo in termini di vittime. «Abbiamo lasciato Homs due anni e mezzo e fa – racconta mentre giocherella nervosamente con le mani - siamo andati a Damasco dove siamo rimasti per due mesi, poi in Egitto, al Cairo, per altri due mesi, ma anche lì eravamo in pericolo, così siamo andati in Libia. Abbiamo viaggiato in cinque: mamma, papà, due fratellini di 4 e 10 anni». Il suo ultimo ricordo di Homs è casa, «la mia stanza, con tutti i miei poster, i vestiti, le bambole di quando ero piccola, prima che crollasse il tetto. Un razzo ha distrutto il nostro appartamento». Nadia ha finito la terza superiore in Libia, ma vorrebbe proseguire la scuola, fare l’università, studiare legge per diventare avvocato. Lo avrebbe potuto fare in Libia se solo non fosse stato impossibile. «Ogni volta che le persone scoprivano che eravamo siriani ci attaccavano verbalmente o con le armi, ci dicevano di tornare al nostro paese. In particolare, c’era un uomo, un vicino di casa, che mi voleva prendere in moglie, io non volevo, i miei genitori neanche ovviamente. Così ha iniziato a minacciare la mia famiglia, dicendo che avrebbe ucciso tutti, se non avessimo acconsentito. Ci sono tante ragazze siriane nelle mie condizioni. Non solo siriane, certo, ma noi siamo particolarmente colpite perché molte hanno la pelle e gli occhi chiari, una rarità disgustosamente apprezzata da tanti uomini. Ci sono altre ragazze che, come me, sono scappate via con la famiglia».
Il viaggio della speranza
Per il viaggio spiega Mervat, la madre di Nadia, una donna molto curata sulla quarantina, si sono messi d’accordo con altre famiglie per partire in gruppo, pagando 1.500 dollari a persona. «Il viaggio è stato un incubo – confessa la donna - al momento di partire ci hanno ammassato su un gommone, da lì siamo stati spostati su una barca che però non funzionava. La persona che ci ha portato sul barcone ci ha lasciato ed è andata via. Tre ragazzi siriani hanno provato a farla funzionare. Poi abbiamo iniziato a imbarcare acqua, eravamo 150 persone. Quando ho visto l’acqua che mi bagnava le le caviglie ho pensato che non sarebbe successo niente, poi però ho visto che saliva, i miei jeans si sono inzuppati, vedendo che i libici se ne erano tornati indietro a riva ho pensato che ci avevano lasciato lì, a morire. Non ho avuto paura solo per i miei figli. La barca era piena di bambini che hanno iniziato a chiedere ai genitori: “Stiamo per morire?”. Abbiamo provato a tranquillizzarli dicendo che presto sarebbero arrivati gli italiani a salvarci. Finché non sono arrivati veramente. Noi avevamo provato a fare il possibile. Abbiamo cercato di ributtare fuori dal barcone l’acqua – prosegue la donna mostrando a gesti come facevano -. Ma ne entrava sempre di più».
L’arrivo in Sicilia
Mervat interrompe la narrazione, non ha più fiato per proseguire, ricordando l’angoscia di quel viaggio si commuove. Il figlio più piccolo Anas di 4 anni sembra essersi gettato tutto alle spalle, mangia un banana seduto del letto con abitini asciutti e puliti, più tardi andrà a giocare nello spazio dedicato ai giochi del centro d’accoglienza. Nadia lo prende in braccio in continuazione con movenze materne. Lui sembra adorarla mentre il fratellino di 10 anni, Humam, gli fa i dispetti. «Anche loro hanno chiesto a mamma se stavamo tutti per morire – spiega Nadia riempiendo il silenzio della madre -. Poi sono arrivati i soccorsi italiani, fortunatamente. Arrivati in Sicilia, ci hanno portato in un centro d’accoglienza a Siracusa per riposare, ci hanno chiesto se volevamo dare le impronte per l’identificazione ma abbiamo preso tempo dicendo che eravamo stanchi e bagnati. Ci hanno lasciato riposare, poi ci hanno portato a Roma da Catania con un aereo. A Roma ci hanno portato in un altro centro di accoglienza, dal quale ci siamo allontanati senza aver dato le impronte. Così siamo arrivati a Milano, sapevamo che qui avremmo trovato un modo per arrivare in Danimarca dove vive mia zia. Appena arriverò io e mio fratello Humam ci iscriveremo a scuola». Nadia è la più grande dei suoi fratelli, l’unica che probabilmente non riuscirà mai a scrollarsi di dosso una nostalgia che le è rimasta dentro. «Mi mancherà sempre Homs. Avevo una vita semplice e bella. Andavo a scuola e avevo le mie compagne con cui mi confidavo, avevamo tanti sogni che avremmo voluto realizzare in Siria perché lì non ci mancava nulla per essere felici».
(Corriere della Sera Cronache)

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