Siriani, rifugiati senza più speranza di tornare...
Viaggio in Giordania, dove vive una parte dei 9000 siriani in fuga e senza più speranze di ritorno
«Mio figlio chiede tutti i giorni quando potrà tornare in Siria. “Se torniamo moriremo”, gli dico. E lui “Va bene, ma adesso andiamo a casa”. Mohammad ha solo sei anni». Um Mahad vive da un anno con i quattro figli in una roulotte nel campo profughi di Zaatari, in Giordania. È il secondo più grande al mondo, una “città” che oscilla fra le 80 e le 140mila presenze. Come la maggior parte dei profughi è combattuta tra il desiderio di tornare e la volontà di rimanere viva. Perché a tre anni dall’inizio del conflitto, in Siria si continua a combattere, morire e fuggire.
Il campo profughi di Zaatari, Giordania
Um Majd appena fuori dalla roulotte che condivide con i quattro figli nel campo per rifugiati di Zaatari
Le vittime sono oltre 100mila, diecimila dei quali bambini e, secondo gli ultimi dati Onu, gli sfollati arrivano a 9 milioni (il 40 per cento della popolazione), di cui 6,5 sono bambini. Due milioni e mezzo hanno trovato salvezza e protezione nei paesi limitrofi come Libano e Giordania, che contano fino a 600 nuovi ingressi al giorno.
Rifugiati che rischiano di rimanere tali per sempre, perché dal 2011 la situazione siriana ha cambiato forme e modi: «Quella che in un primo momento poteva sembrare una crisi di pochi mesi si è trasformata in una guerra in piena regola», spiega Camilla Jelbart Mosse, responsabile Oxfam della crisi siriana. E gli stessi profughi hanno perso la speranza di tornare a casa. «Secondo un sondaggio che abbiamo condotto tra 1015 persone in tre insediamenti in Giordania, il 65 per cento degli intervistati crede che non riuscirà mai più a rivedere la Siria, il 78 per cento ci spera ma non crede sia possibile a breve».
L'insediamento informale di Jawa, alle porte di Amman, dopo la nevicata del 12 dicembre 2013
Molte tende dell'insediamento informale di Jawa sono crollate sotto il peso della neve
Anche la mappatura degli aiuti deve essere rivista, soprattutto in Giordania, che ha sei milioni di abitanti e con l’arrivo dei siriani ha visto aumentare la propria popolazione di 600mila persone. «Insieme a generi di prima necessità servono infrastrutture e programmi a lungo termine per dare a queste persone una seconda possibilità», continua Mosse.
Proprio nei giorni scorsi la Giordania ha annunciato l’intenzione di aprire una nuova struttura ad Arzaq, 100 chilometri ad est della capitale Amman, che potrà accogliere fino a 130 mila persone. Ma non basta. Anche perché circa il 70 per cento di siriani sfollati in Giordania preferisce insediamenti informali ai margini delle principali città o piccoli appartamenti nelle periferie al campo di Zaatari, che per popolazione è la quinta città del Paese. Situazioni che rendono forse più semplici i tentativi di ricostruire una vita normale che contempli un lavoro, la scuola per i bambini, relazioni con il vicinato.
Come succede a Jawa, dove un anno e mezzo fa un centinaio di famiglie, tutte provenienti dalla zona di Hama nella Siria centrale, hanno deciso di realizzare insieme un accampamento proprio alle porte della capitale. «Le condizioni sono difficili - racconta Ruba Saqr, responsabile ufficio stampa Oxfam in Giordania - nei mesi scorsi gran parte delle tende hanno ceduto sotto il peso della neve o sono state invase dal fango. Si è dovuto ricostruire da zero». Eppure al momento le famiglie sono diventate 248, mandano i propri figli nelle scuole del circondario, stringono relazioni con i vicini che li hanno aiutati fin dall’arrivo, cercano lavoro.
Zeina gioca vicino alla sua tenda
Altre situazioni simili si trovano nella valle del Giordano, a Ma’an, Mafra, Balqa. «La Giordania è storicamente accogliente: negli ultimi 50 anni ha ospitato e integrato profughi iracheni, libanesi e soprattutto palestinesi, che rappresentano il 40 per cento della popolazione locale e hanno ormai passaporto giordano. Ma il momento è difficile: il Paese sta attraversando una crisi energetica, è uno dei più poveri di acqua al mondo e ha livelli di disoccupazione ufficiale che toccano il 15 per cento, ovvero il 20 - 25 reale», continua Saqr.
E proprio il lavoro è uno dei temi più scottanti. Perché uno dei falsi miti sui siriani è che dipendano interamente dagli aiuti delle Ong o del governo e non lavorino affatto. «La situazione è ambigua- spiega Mosse- ufficialmente il governo giordano non lo permette, proprio perché teme la concorrenza di lavoratori a basso costo in un Paese che ha già un tasso di disoccupazione altissimo». Qualche occasione viene offerta dalle stesse Ong come Oxfam, che nel capo di Zaatari fa lavorare i rifugiati nella pulizia e gestione della struttura. Molti di più lo fanno autonomamente, o almeno ci provano, ed è facile incontrare nelle grandi città o nei principali siti turistici ragazzi e uomini di mezz’età che fanno gli autisti, i lavapiatti, i camerieri. Come Amin, che ad Aleppo insegnava in un liceo maschile e da un anno e mezzo fa il cameriere alle porte di Petra. Appena è certo che rispondere non gli avrebbe dato problemi, si apre. «Mando i soldi alla mia famiglia, che si trova al confine con Israele e non vedo da quando sono partito. Il proprietario del locale mi ha accolto e dato speranza». Ma alla domanda «Speri di tornare?», risponde con scrollata di spalle e occhi bassi. Dopo un po’ aggiunge: «Sono vivo e la mia famiglia sta bene. Per ora mi basta».
Abu Mustafa e suo nipote in una tenda dell'insediamento nella Valle del Giordano
Ma se da un lato ai rifugiati singoli è di fatto vietato di lavorare regolarmente, nel Paese sono più che benvenuti i proprietari di aziende siriane. Nelle ultime settimane il Ministero dell’interno ha infatti approvato una procedura che garantisce ingresso e permanenza per tutta la famiglia di chi accetta di trasferire la propria compagnia in Giordania e assumere lavoratori locali. Ne sono già state avviate 80.
«Il governo però dovrebbe capire che anche i singoli sono una risorsa: molti sfollati sono medici, ingegneri, insegnanti, operai qualificati che inseriti nel contesto lavorativo potrebbero contribuire a migliorare le condizioni del Paese», spiega la responsabile Oxfam.
«La situazione è in continua evoluzione- aggiunge- per questo è importantissimo trovare i 6.5 miliardi di dollari che le Nazioni Unite hanno chiesto per far fronte alla crisi nel 2014. Al momento solo il 12 per certo è stato raccolto» (Qui tutte le somme promesse e donate da ogni Paese). A queste si aggiungono i 2,3 miliardi promessi in occasione della Conferenza dei donatori in Kuwait del gennaio scorso. La somma chiesta è largamente sottostimata, continua Mosse, perché oltre a far fronte alle necessità primarie di acqua, cibo riparo e medicine, serve a creare un fondo per i progetti a lungo termine. «Se anche la guerra finisse domani, i profughi non potrebbero tornare a casa per anni».
Tutte le foto sono di © F. Muath Oxfam
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