Il dramma dei rifugiati siriani è affaire poco europeo...
Anna Pascale
«Quando milioni di persone sono in movimento, accogliere 200-300 persone non risolve il problema». Le parole pronunciate il 5 febbraio scorso dall’allora ministro degli Esteri Emma Bonino riguardo alla possibilità che l'Italia accolga un certo numero di profughi siriani, in occasione del suo incontro a Beirut con l'omologo Adnan Mansour, chiariscono l’entità del ruolo di Italia e, più in generale, Europa nella gestione della crisi in Siria. Trascurando gli scarsi risultati ottenuti attraverso l’attività diplomatica condotta sinora nel tentativo di porre fine al conflitto, anche sul fronte del sostegno umanitario la comunità europea si è limitata a mantenersi nelle zone di retrovia.
Rispetto ai 900 mila rifugiati stanziatisi sinora in Libano, i 700 mila che si contano in Turchia e i quasi 600 mila ospitati in Giordania, i 28 stati dell’Unione Europea offrono, al momento, asilo soltanto a 64 mila siriani, il 2,4% del totale di profughi. Alla richiesta avanzata dall’Onu a inizio anno di reinsediare almeno 30 mila persone, individuate tra le categorie maggiormente a rischio, l’Europa ha dichiarato di essere disposta ad accoglierne solo 14 mila. Di queste, 11 mila sono state ospitate in Germania, 500 in Francia, 30 in Spagna, 90 in Irlanda e 10 in Ungheria. Solo undici paesi membri hanno risposto favorevolmente all’appello e tra questi non si annoverano né il Regno Unito né l’Italia. Appellandosi ai fondi elargiti in aiuti monetari (per i quali pochi stati europei riescono comunque a distinguersi se comparati con le cifre stanziate da Stati Uniti e paesi del Golfo), l’Ue cerca di far sentire il proprio sostegno, ma l’unico messaggio che trasmette forte e chiaro è che dei profughi siriani in casa ne farebbe a meno.
L’afflusso di siriani in fuga continua quindi a riversarsi prevalentemente sugli stati contigui al teatro della tragedia, i quali, volenti o nolenti, mantengono aperte le proprie frontiere. Libano, Giordania, Turchia e, in misura minore, Iraq ed Egitto, si rivelano così principali depositari e titolari di quel sistema internazionale di protezione dei rifugiati, definito nel 1951 in sede Nazioni Unite. Eppure, se si escludono gli stati di Israele, Yemen ed Egitto, nessuno dei paesi del Medio Oriente ha mai proceduto con la ratifica della Convenzione. La Turchia, che figura tra i firmatari ma mantiene la riserva di applicare lo status di rifugiato ai soli eventuali cittadini europei, ha provvisoriamente esteso la protezione ai siriani. Mentre i firmatari della Convenzione sono obbligati a consentire a coloro riconosciuti come rifugiati di lavorare e avere pieno accesso ai servizi pubblici, come sanità e istruzione, i governi che ospitano i siriani hanno ovviato al vuoto normativo estendendo ai rifugiati alcuni limitati diritti (come l’accesso ai servizi pubblici e al lavoro).
Dall’inizio del conflitto nel 2011 e, soprattutto a partire dal 2012, il flusso di profughi riversatisi nei paesi vicini si è intensificato in quantità e rapidità. Nell’arco di 18 mesi, il numero di siriani in esodo è passato da 40 mila, dato di marzo 2012, a due milioni, contati a settembre 2013. A questi, si aggiungono tutti coloro che ancora attendono di essere registrati e i 4,5 milioni di sfollati interni. Nei paesi che detengono la parte più grande di rifugiati, il punto di rottura è stato abbondantemente superato e l’impatto è sempre più insostenibile. Agli ingenti costi finanziari, si aggiungono dilemmi politici per i governi ospitanti, riguardanti in particolare le loro relazioni con gli altri paesi della regione, nonché un reale pericolo di destabilizzazione dei delicati equilibri etnici e confessionali interni.
La situazione più drammatica riguarda il Libano. Nel paese dei cedri – che già accoglie da decenni più di 440 mila rifugiati palestinesi – il numero di profughi siriani ha raggiunto le 950.479 unità. Con una popolazione di 4,5 milioni, un tale afflusso genera un impatto sul paese equivalente – come ha fatto notare la stessa Bonino – a quello che si avrebbe sull’Italia se nel giro di due anni oltre 15 milioni di persone approdassero sulle nostre coste. I rapporti tra Libano e Siria, tra l’altro, si fondano su un passato travagliato. Alle ostilità provocate dalla decennale occupazione siriana della terra dei cedri, si frappongono i rapporti che legano numerose famiglie divise tra i due stati; basta pensare che, già prima della crisi, il 15% della forza lavoro in Libano era costituita da siriani. Nonostante la mancata presa di posizione da parte del governo libanese rispetto alla guerra, la questione dei rifugiati e l’attività di Hezbollah nel conflitto hanno inevitabilmente coinvolto l’intero paese. La combinazione tra diversi fattori – guerra in Siria, ingente presenza di rifugiati e instabilità politica interna – sta inoltre danneggiando irreparabilmente l’economia libanese. I disordini hanno provocato il crollo del settore turistico e un rallentamento negli investimenti dall’estero. L’abbondanza di manodopera ha inoltre provocato un’ulteriore diminuzione nei salari orari e un preoccupante aumento del tasso di disoccupazione, con conseguente maggiore frequenza degli episodi di criminalità. Su un paese alle prese con uno dei debiti pubblici più alti al mondo (pari al 134% del pil nazionale), ciascun rifugiato comporta dei costi, diretti e indiretti, troppo onerosi e a poco serve la riscossione di 200$ a persona per il rinnovo del visto di sei mesi che il governo concede ai rifugiati che giungono in Libano attraverso i valichi di frontiera ufficiali.
Sebbene l’impatto numerico sia leggermente inferiore, situazioni di grave disagio interessano anche lo stato della Giordania, che attualmente ospita 581.535 rifugiati siriani. Così come accade in Libano, il governo giordano, che conosce bene le fragilità che si generano nel tessuto sociale di una nazione in seguito all’enorme afflusso di cittadini stranieri (più della metà della popolazione giordana è composta da palestinesi), descrive spesso la presenza siriana come un fenomeno temporaneo per il paese e ha impedito l’ingresso sul proprio territorio ai palestinesi siriani. Ciò nonostante, il regno Hascemita si è fatto generosamente carico dell’accoglienza degli esuli, istituendo un campo che accoglie quasi 140.000 profughi (il campo di Za’atari, divenuto la quarta più grande città giordana), e annunciando l’imminente apertura di un altro campo nella città di Azraq. L’ospitalità giordana ha dato però luogo a grandi sfide economiche e di sicurezza per il paese. Presso la popolazione locale cresce il risentimento contro i profughi, ritenuti responsabili della scarsa disponibilità di alcuni beni di consumo, del loro aumento di prezzo e dell’incremento della disoccupazione. Grandi preoccupazioni desta poi la carenza di acqua, annoso problema del paese. Il conflitto in Siria sta minacciando inoltre la stabilità della Giordania, data la crescente rilevanza del confine comune in termini di circolazione di armi e combattenti, jihadisti compresi.
Un caso singolare è invece dato dalla presenza dei siriani in Turchia. Accanto alle enormi perdite commerciali che la scomparsa del partner siriano ha comportato per Ankara, e ai due miliardi di dollari stimati dall’amministrazione pubblica per far fronte ai costi dell’assistenza al popolo siriano, l’afflusso di risorse umane e fondi dall’estero ha dato vita a nuove opportunità economiche nelle aree transfrontaliere. Nel corso del 2013, i siriani hanno aperto 122 aziende in alcune città di confine, come Gaziantep, Mersin e Hatay, e più di cento aziende a Istanbul e Bursa. Ovviamente, a questa rinnovata attività imprenditoriale fa da contraltare l’aumento generale dei prezzi provocati dal repentino incremento del tasso di urbanizzazione e della domanda di immobili. Più che di natura economica, la presenza siriana in Turchia genera preoccupazioni di natura sociale. Si teme che la crisi siriana sia fonte di instabilità interna sia influendo sull’annosa questione dei curdi in Turchia, sia sull'impatto che la presenza di una grande quantità di profughi, in gran parte sunniti, può comportare sulle relazioni inter-etniche del paese.
Un numero minore di siriani ha cercato invece rifugio in Iraq (dove attualmente risiede poco più del 10% del totale di sfollati) o in Egitto. Nel primo caso, si tratta soprattutto di curdi stanziatisi nelle aree urbane del Kurdistan iracheno. Nonostante la generosità del governo locale e la concessione del diritto di lavorare, le risorse a loro disposizione sono assai ridotte e in molti hanno preferito fare ritorno in Siria. La condizione dei 100 mila rifugiati siriani presenti in Egitto ha subito un grande cambiamento nella seconda metà del 2013. Se inizialmente hanno goduto di maggiori opportunità rispetto ai connazionali stanziati altrove, in seguito alla caduta di Morsi sono divenuti oggetto di episodi di xenofobia, nonché persecuzione, da parte del governo di transizione che teme il loro supporto alla Fratellanza musulmana.
Il 14 marzo scorso si è aperto il quarto anno di un conflitto di cui ancora non si scorge la fine e che sta trascinando con sé conseguenze che si protrarranno per diversi decenni. Oltre 140 mila vittime, più di un milione di bambini affetti da traumi legati al conflitto, un’intera generazione deficitaria in termini di istruzione e assistenza sanitaria, l’economia di un intero paese letteralmente dimezzata in termini di produzione e occupazione e una delle comunità di rifugiati più grandi al mondo che guarda come è diventata la propria terra e non vuole più farvi ritorno. Quando si parla di crisi siriana, non si fa più riferimento a una guerra civile apertasi in una nazione, ma a un dramma regionale che coinvolge più stati e più popoli che se ne ripartiscono gli oneri in nome di quel principio di responsabilità internazionale condivisa che, lungi dall’essere accolto dall’intera comunità mondiale, si rispetta solamente a causa della vicinanza geografica.
Anna Pascale, ISPI Research Assistant
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