Dalle crisi in Africa al fallimento siriano: la proposta USA su come reagire ai conflitti armati nel mondo...



                      Un soldato della Repubblica Democratica del Congo delle forze di peacekeeping africane

Di Gabriella Tesoro | 20.02.2014 19:30 CET
Il 2013 è stato un anno particolarmente cruciale per capire e analizzare la risposta della comunità internazionale ai conflitti armati. A farla da padrona lo scorso anno è stata sicuramente la questione siriana, ma anche il conflitto in Mali e la crisi della Repubblica Democratica del Congo hanno avuto purtroppo un ruolo importante. Il programma Global Governance e il CFR (Council of foreign relations, un'associazione privata Usa composta soprattutto da leader politici e uomini d'affari che ha una rilevanza tale da poter influire sulla politica estera americana) hanno aggiornato il loro rapporto "Global Governance Montitor: Armed Conflict", nato per analizzare e monitorare gli sforzi multilaterali per prevenire, gestire e arginare i conflitti armati nel mondo.
Il rapporto fa notare che, strano a dirsi, il concetto di "peacekeeping" (letteralmente "mantenimento della pace") non è neanche menzionato nella Carta delle Nazioni Unite, redatta subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale, quando il mondo era ben più preoccupato a prevenire e fermare un'aggressione militare. Dunque, quelle che oggi sono considerate le normali operazioni di peacekeeping sono nate piuttosto da una più larga interpretazione del Capitolo 6, che prevede la soluzione pacifica alle controversie, e del Capitolo 7, che prevede azioni coercitive per mettere fine ai conflitti. Da qui, nacquero quelle che vennero chiamate le "operazioni del Capitolo 6 e mezzo", vale a dire le vere e proprie operazioni di mantenimento della pace. Se in un primo momento questo tipo di interventi prevedevano l'invio di osservatori o al massimo l'utilizzo di soldati per mantenere il cessate il fuoco, con il tempo la portata delle missioni e il numero degli attori coinvolti è cresciuto notevolmente.
Lo scorso anno, il Consiglio di Sicurezza dell'ONU ha dato il via libera a operazioni con mandati piuttosto decisi in Mali e nella Repubblica Democratica del Congo, permettendo la neutralizzazione delle truppe ribelli che avrebbero potuto in seguito creare problemi al mantenimento della pace. I risultati sono stati piuttosto buoni e in entrambi i Paesi la situazione è notevolmente migliorata, laddove in Mali si sono svolte elezioni presidenziali e legislative e nella Repubblica Democratica del Congo il movimento M23 ha accettato di deporre le armi per perseguire i suoi obiettivi con mezzi puramente politici. Il problema è che mettere in atto misure più coercitive, che prevedono anche l'uso della forza, e schierare truppe da combattimento in un Paese instabile può avere conseguenze imprevedibili, in primis per lo stesso personale delle Nazioni Unite. Basti pensare al caso dell'intervento in Bosnia-Erzegovina, quando diversi soldati Onu vennero catturati e usati come scudi umani dai serbo bosniaci. In sostanza, il rischio di coinvolgere le Nazioni Unite direttamente nel conflitto è molto alto, probabilità che farebbe perdere all'organizzazione la sua reputazione di mediatore imparziale.
Per evitare queste derive, l'analisi consiglia all'Onu di riformulare il suo concetto di "imparzialità", indicando la parità di trattamento di tutti i soggetti che lavorano per la pace, e, allo stesso tempo, bloccando tutte quelle forze che seminano violenza. Inoltre, il rapporto invita il Dipartimento Onu per le operazioni di mantenimento della pace a dare priorità al dialogo inclusivo che coinvolga i rappresentanti di tutte le parti in conflitto.
Un'altra innovazione delle Nazioni Unite messa in atto nel 2013 consiste nell'utilizzo di droni nelle missioni di pace. Al contrario di quelli utilizzati dagli Stati Uniti in Yemen o in Pakistan, i droni dell'ONU non hanno armi e sono progettati esclusivamente per sorvegliare le zone critiche nelle operazioni di peacekeeping. Il Dipartimento per il mantenimento della pace ha lanciato il primo drone di questo tipo nel dicembre 2013, nella Repubblica Democratica del Congo, fornendo un grande aiuto alle forze in campo e provando ben presto che questo tipo di tecnologia rappresenta un metodo economico, sicuro ed efficace per controllare la situazione in vaste aree del territorio.
Tuttavia, anche nel 2013 non sono mancate le delusioni. Nel corso della sanguinosissima guerra civile siriana, il Consiglio di sicurezza dell'Onu si è rivelato del tutto incapace nell'approvare una risoluzione che mettesse fine alle violenze e lo stallo tra i membri permanenti (Cina, Russia, Usa, Francia e Regno Unito) ha permesso che il conflitto andasse avanti all'infinito, con conseguenze umanitarie devastanti.
La completa inettitudine dell'Onu di fronte alla crisi siriana ha minato, se non invertito, l'utilizzo della norma "responsabilità di proteggere". Comunemente chiamato R2P, il provvedimento prevede che se uno Stato non è capace di proteggere la propria popolazione da genocidi, crimini di guerra o pulizia etnica, la comunità internazionale si deve assumere la responsabilità di difenderla. L'R2P venne utilizzato per l'intervento Onu in Libia, ma in molti hanno considerato il suo utilizzo come una facciata per  facilitare il cambiamento di regime. Inoltre, a causa del forte dissenso del Consiglio di Sicurezza sulla questione siriana, è stato messo in dubbio il futuro dell'R2P come norma e criterio internazionale da utilizzare nelle situazioni di crimini contro l'umanità.
Infine, il rapporto conclude fornendo sei punti principali su cui la comunità internazionale dovrebbe lavorare per rispondere adeguatamente ai conflitti armati. In primo luogo è necessario migliorare le strutture mondiali e regionali per la prevenzione dei conflitti. Gli Stati Uniti e le Nazioni Unite dovrebbero lavorare a fianco delle organizzazioni regionali per rafforzare la capacità di prevenzione delle crisi. Un obiettivo immediato dovrebbe essere quello di integrare al meglio le analisi dei conflitti e le azioni per far scattare subito l'allarme. Bisogna dunque aumentare la condivisione delle informazioni, soprattutto in vista del continuo aumento delle missioni ibride, vale a dire quelle che coinvolgono le forze internazionali e le truppe del Paese. In secondo luogo, è necessario riequilibrare i finanziamenti per migliorare la prevenzione dei conflitti. Dato il vincolo di bilancio, i funzionari tendono a dare priorità alle crisi immediate, rischiando di trascurare quelle emergenti. In terzo luogo, bisogna migliore la pianificazione e il coordinamento delle missioni di peacekeeping e di peacebuilding. Quarto: è necessario chiarire il mandato e le strategie di ciascuna missione di pace, che spesso ha obiettivi irrealistici, analizzando il contesto del conflitto, le truppe, la logistica e i fondi a disposizione. In sostanza, bisogna rifarsi ai principi del cosiddetto "Rapporto Brahimi", commissionato nel 2000 dall'allora Segretario generale dell'ONU, Kofi Annan, che delineò i requisiti minimi per avere un'operazione di peacekeeping di successo. Quinto: è necessario creare delle forze militari Usa per prevenire atrocità di massa. L'amministrazione Obama ha infatti più volte dichiarato che impedire crimini di massa è una priorità della sicurezza nazionale. Dunque, secondo il rapporto, la soluzione sarebbe che il presidente Usa dirigesse direttamente il Dipartimento della Difesa per sviluppare piani, formazioni e per rendere questo obiettivo una priorità del Pentagono. Infine, l'amministrazione Obama dovrebbe sviluppare una sezione all'interno dell'Ufficio per le operazioni di conflitto e stabilizzazione del Dipartimento di Stato che si possa rapidamente affiancare alla Mediation Support Unit dell'ONU.

(International Business Time)

Commenti

AIUTIAMO I BAMBINI DELLA SCUOLA DI AL HIKMA

Post più popolari

facebook